Fuori Tempo
Febbraio e’ corto e tagliente. Con noi lo sai, fu sempre difficile. Io ne ho sentito ad ogni vigilia il preludio nell’aria, simile a una musica di vetri o di corde tesissime che cigolano al vento. È un mese di ritmi serrati, battere e levare, e finisce sempre che leva. Non lascia, e non rende.
Oltre a privarmi ad ogni venire di qualcuno, con la sua abitudine alla falce della morte mi costringe a superare questa dimensione, mi obbliga alla comunicazione più estesa con le realtà intangibili, quelle che ci istigano ad ampliarci, a irradiare le nostre onde energetiche verso gli strati non materiali dell’esistere. Così oggi, ci provo.
Sembra che siano passati otto anni. Gli anni sono la nostra misura del tempo, un tempo che vale qui e ora, sono sicura che te ne ricordi. Come faccio a liberarmene per venire più oltre a farmi un giro? Per raggiungerti davvero. Mi porterei una fotografia, così tre tempi andrebbero a incontrarsi. Il primo è un tempo in cui in cui io non ero nata e tu eri giovane. Ti chiamavano “il moretto della stazione“, un Humprey Bogart, anche più bello del divo, forse meno tenebroso. Figlio di macchinista ferroviere anarchico, un’icona di livornese. Fu in quel tempo che hai conosciuto la tua Ingrid Bergman, mia madre. Lei le somigliava davvero molto, alla Ingrid, ma Casablanca non c’entra con voi. Vi siete sposati nel ’45 sotto le bombe, eravate sfollati e tu di sera rientravi di turno all’Ospedale Militare.
La vostra vita non è stata esotica e fascinosa, no. Le bombe hanno continuato ad esplodervi intorno sempre, anche a guerra finita. E poi venne ancora un febbraio con la sua falce e si portò via mio fratello; la vostra esistenza sembrava diventata impossibile. Però arrivai io, diciannove mesi dopo, e abbiamo ricominciato. Così questo, è il secondo tempo che verrei a portarti, il nostro tempo, quello vissuto insieme, io con te, mamma, mio fratello e mia sorella, quando sono arrivati. Non posso dire che sia stata un’infanzia serena, no; diciamo che eravamo movimentati. Ma non sono mai stata infelice, sai. Questo no. E poi avevo sempre quel mio ottimismo, il piglio, quello che oggi chiamano resilienza, accostando l’essere vivente all’acciaio temprato. Sì, temprati lo siamo stati. Poi c’è il tempo che arriva ad oggi, gli otto anni passati da quando non sei più qui fisicamente. Sempre nella nostra misura di tempo, quella che anche tu eri abituato a considerare, tu che eri frettoloso e impaziente. Ma se cerco di raggiungerti oggi, è proprio perchè voglio cercare di capire come ci si libera di questo tempo. Com’è che posso capire appieno che non è mai passato un tempo vuoto di te. Che ci sei e semplicemente, sono io che devo abbandonare la mia convenzione. Con questi tre tempi a fondersi insieme, in un altro febbraio difficile, ora che è mamma ad avere bisogno di noi, di un pò di tempo che si fa da parte e diventa clemente, cerco di fare quadrare i bilanci. So che puoi aiutarmi. Io ci provo babbo, esco, ti raggiungo. Tu mi insegni altre matematiche, nuove fisiche, o forse, solo, quello che mi sapevi insegnare anche qua molto bene. A giocare, scommettere che tutto in realtà, è solo un gioco. E il bello, non è vincere o perdere, no. È solo, sempre, sperare.