Scritti giovanili

Questo pezzo di Vonnegut è stato oggetto di una profonda riflessione nei giorni passati, e così proprio  quando la scrittura – da me lasciata in forza di una serie di convinzioni anche errate ai margini della “vita” – si appresta sempre più a divenire attività centrale, mi trovo a ricordare da dove viene, dove ha iniziato, e quali, quante “creazioni” ha avuto, per me. La sua importanza non è più grande adesso di quando era una via per far crescere la mia anima. Di più: mi accorgo ripercorrendo all’indietro che è sempre sgorgata da relazioni importanti, da incontri. Ha sempre amplificato il mio essere, oltre al mio sentire.

Allora ho rispolverato questo racconto dell’anno ‘93 (quando ci si scrivevano lettere e non c’era né facebook né il cellulare) che ho revisionato e che dedico alla persona con la quale per prima ho condiviso l’esperienza dello scrivere.

Per una come me che ama conservare i contatti – nella convinzione che il bene, il legame, cambia non smettendo di esistere – è difficile dover ammettere che questo racconto non è altro che una fantasia, un’immaginazione sgorgata tanti anni fa dalla mia testa quando per la prima volta visitai Trieste, ed ebbi l’impressione di sentire la presenza di R.M. in quel luogo. Che poi probabilmente ebbi su certe cose un giusto sentire, è un caso, o forse, anche no.

Buona lettura.

 

Scritti Giovanili

E’ stato un desiderio espresso da lui e che sulle prime l’ha sorpresa: poi è sopravvenuta un’emozione di ricordi e immagini ancora vive. Musica, libri, pomeriggi ginnasiali dilatati da giovani affetti. Loro due chini su sottili quaderni dalle copertine nere a scrivere cose forse banali forse scontate, tra quel primo calore di labbra, di braccia.

Lui straniero di fatto, col nome italianizzato. Intimorito da un’educazione familiare a vivere le proprie emozioni sensuali. Non così brillante ma originale, diverso. Un mondo interiore immaginifico che lei riesce a veder prendere vita, tra le insicurezze.

Lui che sarebbe diventato grande e consapevole – libero da fardelli – in un tempo lontano da quello e lontano da lei. Lo ritrova comunque dedito a libri e quaderni, con intorno musica come allora; glielo dice in una lettera arrivata fino là dove è lei, altrove.

Ha pensato che andare sarebbe sciocco e ha scritto subito un no, allontanata da un tono un po’ freddo e da un mittente che non parla in persona. Edizioni Tal de tali. Il suo nome tornato autentico, slavo. Lui, editore.

No, ha scritto. Ha messo in busta. E’ uscita per andare alla posta, Deutsche Bundespost.

– Was kostet die Briefmarke? Italien, Triest. 

Aveva il francobollo, stava per incollarlo. Invece ha strappato la lettera, acquistato un’altra busta e messo l’affrancatura. Ha staccato un foglio dal taccuino. Tra due fine settimana siamo in Giugno, verrò in auto passando dal Tarvisio, vale. 

L’ha consegnata direttamente allo sportello, ci mette quattro giorni circa una lettera, dice l’impiegata.

Ha passato le montagne, le praterie, colline dominate da borghi severi: un piccolo rapace si incontra spesso da quelle parti, si libra su aiuole di bosco.

Poi è venuta la roccia carsica, brulla e verde allo stesso tempo, come un ossimoro di pietra.

E dalla pietra statue a imponente memoria, sacrari di cui lei conosce il nome: sua nonna vi venne a cercare le ossa del padre disperso. Le tombe di Enne Enne, tragico eroe di imperialismi già sbiaditi prima di finire imbiancati definitivamente dalla pesante brina delle campagne di guerra.

Arriva una città di mare in cui lei si trova per la prima volta. Lui sarà qui per scelta o per caso? Si chiede. Ci sono i suoi lineamenti e colori sulle facce della gente, sembra tornato a casa. L’isola dove nacque suo padre  sta in uno specchio d’acque poco lontane, oltre un sofferto confine.

Splendori dimessi nei palazzi e negli abiti. Vie larghe, nomi altisonanti. Moli che si allungano verso grandi imbarcazioni ormeggiate. Commerci e guerre: finiti i monarchi e i colonialismi, resta l’orgoglio di architetture monumentali.

Lui abita nel quartiere universitario a pochi passi dalla facoltà dove insegna. Il palazzo è alto ma ha solo tre piani. La facciata è scorticata, e le ringhiere decò avrebbero bisogno di essere riverniciate. Lei fatica a spingere il portone che si apre verso l’interno rimanendo incastrato in un tappeto cremisi sul quale le piante poste ai lati lasciano cadere foglioline secche.

Apre la porta dell’appartamento con rapidità, quasi alla fine di un’attesa nervosa. Si trovano di fronte con un imbarazzo ancora immaturo, quello dell’ età condivisa, mai del tutto superato. Lei lo scruta e  non trova il sorriso fraterno che le riservava allora; quello di un ragazzo complice, prima di tutto. Si studiano; lui più magro che mai, lei coi capelli lisciati e più chiari. Tacciono. Lei suppone lui la trovi frivola, lui crede lei lo trovi invecchiato. Poi è lui a rompere gli indugi ed a cingerle le spalle in un abbraccio formale.

Ha preparato un tè russo e apparecchiato una tavola quadrata davanti a una finestra alta e stretta, nel vano un canarino litiga col suo osso di seppia.

La cucina un po’ tetra ha bisogno di luce accesa; lei riconosce le tazze con il decoro nero che erano di sua madre e alpacche di viaggi inglesi, i primi all’estero di lui con gli amici di scuola. Parla del suo lavoro con soddisfazione. Si occupa di slavistica italiana.

Lei ha portato in dono un’edizione antiquaria di Rilke, lui non fa cerimonie nell’accoglierla, parlano di Duino come ne parlavano allora. E da lì cominciano i ricordi di quel loro scrivere a quattro mani ascoltando per lo più il Messiah di Händel, che provocava entusiastiche ispirazioni.

Lui cita destini di gente che lei ha perso del tutto di vista, da tempo ben lungo oramai esiliata in un paese straniero. Ha potuto rileggere in lingua originale molti dei loro romanzi e saggi preferiti, in compenso non sa più dei loro amici chi fa che cosa. Gli chiede della sua vita. Lui si racconta. Ha una liaison con una studentessa giovane e con un carattere che ricorda quello di lei ai tempi della loro frequentazione. Lui sa bene che sta con l’uomo per cui l’ha lasciato a suo tempo, e anche se non lo ammetterebbe mai, la cosa gli suscita rabbia. Così quando starebbe a lei parlare di sé la interrompe e mette in campo il suo progetto, quello per cui l’ha chiamata sin lì.

Conserva ancora quei quaderni sottili dalla copertina nera da loro scritti, sono oramai ingialliti e la loro calligrafia sta sopra, grande, egocentrica come quella dei ragazzi che vanno a scuola. La maggior parte delle cose sono shit, dice lui, le mie in modo particolare, fa ammissione, davvero patetiche a tratti.

Ma uno di questi è un’altra cosa, originale, un botta e risposta tutto a ritmo di musica sulla percezione di alcuni autori britannici. Davvero divertente. Andrebbe editato, meglio se insieme, ma ne uscirebbe qualcosa di buono. Lui si è messo a produrre piccole edizioni artigiane di valore: lo vorrebbe pubblicare. Prima di dirgli no, dovrebbe acconsentire a rileggerlo con lui, oggi.

Fine prima parte; la seconda qui