Né gourmet né fast-food: mangiare a casaccio
Gourmet vs fast-food: come uscirne? Mangiando a casaccio. Ecco perché.
La goccia che fa traboccare non il vaso ma il pentolone di questo gran parlare di cibo è proprio il tema attorno a cui ruoterà l’EXPO. Forse questo calderone che è andato riempendosi negli ultimi anni altro non è che lo sforzo estremo degli italiani di riprendersi dalla crisi scommettendo tutto su quello che si attende come grande evento per il nostro incerto Stato (e stato, anche, con la minuscola). È così che chiunque si è messo a parlare di cibo, scrivere di cibo, a cucinare, ad aprire blog e attività enogastronomiche, a riscoprire tradizioni locali o remote.
Mi ha fatto sorridere l‘esperimento di MacDonald’s: aprire un finto ristorante gourmet servendo i suoi nuovi panini, per poi guardare l’espressione allibita di chi, pensando di degustare del gourmet, scopre invece di star masticando del junk food. Alcune riflessioni: quanto la differenza c’è e quanto invece cerchiamo di percepirla noi? Voglio dire: la qualità di un burger ci può anche stare, ma non venite a dirmi che un locale dove si servono solo patatine fritte con mille salse diverse può essere definito salutare, per piacere. Quanto è forte la manipolazione che ci fa accettare di spendere il triplo pur di aver l’idea di mangiar sano senza alcuna certezza che il nostro burger sia davvero “sano” e non quello di qualsiasi fast-food? Io credo che si debba, e si possa, fare uno sforzo per riappropriarsi del proprio gusto. Personalmente, credo sia possibile: mi è capitato di screditare catene di “hamburgerie” più che mai quotate, o di scovare piccoli angoli di paradiso in ristorantini e gelaterie che nessuno conosceva. Certo non è facile, ma nemmeno impossibile. Fa pensare poi quanto quello di Ronald MacDonald sia ulteriore tentativo, quasi grottesco, di non cadere nel dimenticatoio di fronte ad un’altra tendenza più frammentata, meno legata a loghi ma comunque fortissima: quella del gourmet. Che no, non ha come simbolo una M gialla su sfondo rosso che sovrasta le autostrade, ma si insinua in ogni vicolo con una nomenclatura ben precisa: gourmet, slow, presidio.
La qualità di un burger ci può anche stare, ma non venite a dirmi che un locale dove si servono solo patatine fritte con mille salse diverse può essere definito salutare, per piacere.
Si pensi infine all’esperimento di MacDonald’s associato allo spot per Expo del bambino che preferisce il burger a stelle e strisce rispetto all’italianissima pizza. Anche il colosso americano si trova a dover fare i conti con questa tendenza a cercare gourmet ovunque. Tutto ha senso e tutto è buono, comunque, purché si resti lontani da ogni estremismo.
Ben venga la tutela delle tradizioni, purché non diventi blocco al resto.
Ben venga la sperimentazione, a patto che non sia valvola di sfogo di egocentrismi gastronomici di eccentrici cuochi assetati di fama.
L’altro volto della medaglia dell’esperimento di MacDonald’s è, infatti, quello che va ad alimentare la sete di complottismo tutta italiana, particolarmente presente al giorno d’oggi: non sai cosa hai nel piatto, il mondo cospira contro di te, attenzione! No, no. Forse dovremmo impegnarci a sgonfiare due palloncini: quello della simbolizzazione del cibo (passatemi il neologismo), e quello del complottismo. Mangiare un po’ più a casaccio, insomma. Take it easy, voglio dire. Riscoprire una certa anarchia nutritiva che sfugga non soltanto alle grandi multinazionali ma anche a quell’implicita trappola alimentare fatta non di loghi ma di colori (il verde in tutte le sue sfumature regna per indicare il bio, meglio se non acceso e sfavillante), di parole chiave (bio e compagnia bella). Un’anarchia di pancia. Consiglio controcorrente che oggi potrebbe risultare paradossale se non obsoleto a molti.
Mangiate patatine fritte senza giustificare la gola nascondendovi dietro l’etichetta del gourmet, voglio dire.
Ecco: dopo questo lungo preambolo, ho deciso già di darvi appuntamento fra due settimane, con La Grasse Matinée, per parlare nuovamente di cibo. Sì: parlerò di cibo -perché mi piace parlarne come può piacere parlare di musica, di libri, di mostre pittoriche- ma facendo un salto nel passato. Il libro di cui vi parlerò è infatti “Piccola storia del cibo”, di Giorgio Taborelli, pubblicato nel 2007, che pare ieri invece non lo è: regnava in quei tempi il silenzio in merito a food e compagnia bella. I cosiddetti gastrofighetti, figli nerd della nouvelle cuisine francese, semplicemente non esistevano.
To be continued