Acqua e olio (prima parte)
Lasciare l’Università fu conseguenza di scelte poco accorte, dell’erronea valutazione dei miei vizi. La morale comune mi aveva insegnato a non seguire le mie passioni, che quelle sono solo un gioco. Bisognava valutare gli studi per convenienza, per utilità. Il risultato non fu brillante. Troncai con i libri lasciando un cerchio aperto e con il tempo sembrava mi fossi rassegnato al fatto che quella perfetta forma geometrica non avrei mai finito di disegnarla. Il comune senso del pensare mi diceva che ad ogni anno che passa corrisponde un nuovo gradino di rassegnazione, che fosse importante adeguarsi a ciò che gli altri si aspettano da te, matrimonio, figli, lavoro sicuro. Ci ho provato, giuro, l’ho fatto, ma i miei vizi spingevano dall’interno fragorosamente, per quanto cercassi di tenerli buoni.
Un pomeriggio dell’estate 2011 una mia cara amica attivò l’innesco di un bomba che avevo dentro da anni, un residuato bellico, ma ancora capace di deflagrare. Avevano pubblicato il bando per entrare al Corso di Laurea in Culture digitali e della Comunicazione alla Federico II di Napoli. Pensarci, vincere il concorso, iscriversi e trovarsi a conferire per il primo esame nel febbraio successivo, fu un attimo.
Salivazione zero, battito a mille, sembravo un ventenne a tutti gli effetti, ma felice che la matita sul foglio avesse ripreso a tracciare il cerchio. Settembre 2014 ed esco da un’aula del secondo piano con in tasca l’ultimo esame, avevo concluso. Sensazione strana quel giorno. A casa scoppiai in un pianto liberatorio, ma i miei vizi ridevano di cuore. Avevano avuto il sopravvento, dopo oltre vent’anni stavo per laurearmi seguendo un percorso di studi dettato solo dalla passione, dall’interesse, un percorso che oggi valuto molto più interessante dell’obiettivo finale.
Mancava l’ultimo step, la tesi. Frequentavo da qualche tempo il Comitato Terra dei Fuochi della mia zona. Avevo deciso che avrei trattato proprio quell’argomento, divenuto un altro vizio, martellante, insistente, rimbombante nella mia testa. Una sera umidiccia e bagnata, mi fermai a parlare con S. che durante l’assemblea aveva raccontato della moglie usando verbi al passato. Qualcosa non mi tornava, S. era troppo giovane. Non so perché ma mi accordò il privilegio della sua amicizia. In un lungo monologo, tra lacrime e sorrisi, mi parlò della bellissima G., della loro piccola M. Passarono ore e mille sigarette, mentre un diluvio di rabbia e impotenza mi annegava l’anima. Me lo disse alla fine: Aiutami, non so scrivere bene, racconta la mia storia, perché tutti sappiano. G. avrebbe voluto che si sapesse.
Quella sera trovai la chiave per la relazione finale. Nella tesi avrei usato anche il racconto per parlare dell’inquinamento ambientale. Dietro questo disastro c’è il lutto, ci sono vite interrotte, terrore, tutti elementi che l’approccio scientifico non avrebbe saputo restituire. Troncai con i libri lasciando un cerchio aperto e con il tempo sembrava mi fossi rassegnato al fatto che quella perfetta forma geometrica non avrei mai finito di disegnarla.
L’avantreno della moto fu rinvenuto il giorno dopo, di prima mattina, vicino alla spiaggia. Un pescatore avvertì i Carabinieri. Sarebbero arrivati di li a poco molti bambini e un affare del genere poteva essere pericoloso. Il 118 mi aveva trovato la sera prima ricoperto di sangue e piscio, con una gamba a brandelli. Non avvertivo dolore, solo una strana percezione del caldo e del freddo.
Per quanto fosse luglio, l’asfalto era gelido sotto alla mia schiena, umidiccio, quasi bavoso. Il fianco destro , invece, era un fuoco, sentivo bruciare tutto, fino alla spalla. Niente dolore, solo sensazioni nuove, diverse, come se una parte del corpo mi appartenesse un po’ meno. Cercavo di prendere le distanze da ciò che avvertivo provando a spostarmi di lato, ma tutto era inutile, ogni centimetro guadagnato portava con se anche quel fuoco.
Al Pronto Soccorso riuscivo solo a pensare a chi ti avesse avvertita e in che modo te l’avesse detto. Ero talmente preso da questo pensiero che neppure avevo sentito che si parlasse di amputazione. Mi senti, hai capito cosa ti stiamo dicendo? Il medico di guardia dovette alzare la voce di parecchi decibel per farmi tornare presente. Gridai un “no” con tutta la voce che la mia gola arsa mi permetteva. Era un “no” tutto per te. Non potevo rimanere invalido. Non potevo diventare un peso per la donna che amavo molto più di me stesso. All’improvviso il calore diventò ancora più insopportabile e sentii dolore vero per la prima volta, come una tenaglia che stringe, come se mille lame arrugginite mi affettassero la gamba. Oggi ne ho ancora due di gambe, ma rimpiango quel dolore, che avrei scoperto qualche anno dopo essere solo un graffio.
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