Compendio del lavoro da casa
Il mio è uno di quei lavori che si fanno su internet. E per questo lavoro da casa. Aprire una nuova rubrica per parlarne potrebbe sembrare un po’ eccessivo, ma ho tante cose da dire sul mondo dell’online, ve l’assicuro. Per questo è nata Wonder Social Woman. E siccome starete pensando che darmi della wonder woman così su due piedi sia un po’ pretestuoso, sappiate che il nome è stato scelto da una collega di facciunsalto e votato democraticamente in redazione. Io ho solo accettato i poteri e le grandi responsabilità.
La cara e vecchia Missesfits si è presa una pausa. Perché le derive mistiche, dopo un po’, stufano. Soprattutto se chi le scrive non è il Dalai Lama. Quindi l’ho mandata in Buthan, già che ero in tema. Ci ha spedito una cartolina, dice che sta bene, fa giusto un po’ freddino, e tornerà quando avrà raggiunto l’illuminazione.
Insomma, lavoro da casa e coi social network. Sono quella che viene definita Social media specialist o Web content manager. E siccome sentivo la mancanza del prendere le difese delle minoranze, come ai miei vecchi tempi da blogger solitaria, oggi voglio spezzare una lancia in favore dei lavoratori autonomi.
Ho capito quasi subito che una delle parti più complicate del mio lavoro è spiegare agli altri che è un lavoro. Anche se è da casa. Perché, in effetti, non si può dire che abbia un andamento costante: a volte tutto fila liscio, calma piatta, se riesci a organizzarti in quattro ore hai finito e avresti tempo anche per uscire a fare shopping. A volte no. La tempesta ti arriva alle spalle sotto forma di problemi tecnici, articoli migliori ma lunghissimi, ultimissime news che non puoi non pubblicare in extremis, pena essere radiato dall’albo del “ci arrivo prima io su Google”.
Gestire un blog è come essere sposati: nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia, il sabato e la domenica, durante i matrimoni o i pranzi di natale, con l’influenza o il mal di testa, lo stipendio te lo meriti se fai uscire il maledetto articolo. Figo. Fresco di giornata.
E’ vero, mi posso svegliare alle 9.30. E lavorare in pigiama, se mi gira. Tipo quel periodo del mese lì, quando tutto gira, è molto bello lavorare in pigiama. Ma il problema principale del lavoratore autonomo è che finché non ha finito di fare quello che deve, c’è una forza superiore che gli vieta di alzarsi dalla sedia. E questo, a volte, vale anche per gli uffici. Esattamente. Come negli uffici.
Il problema è che è un tipo di lavoro preda di tantissimi pregiudizi. Quando mi chiedono di cosa mi occupo, io investo tutta la mia dialettica per far capire in cinque minuti che è una cosa seria, finché la gente non mi guarda inevitabilmente con quella faccia del “contenta te”. Perché il lavoro da casa è una piaga sociale. Non per chi lo fa, figuriamoci, ma per la gente a cui lo racconti, che è presa da un misto di invidia, perché puoi lavorare in pigiama, compassione perché, a conti fatti, ma che tristezza che lavori in pigiama, incomprensione perché, ma dai, che davvero lo chiami lavoro?
Così la prima puntata sul tema dei social comincia con una serie di discorsi tipo che quelle come me devono affrontare ogni volta che capita, da parte di categorie di persone diverse.
Genitore: “Ciao, sto tornando a casa, hai rifatto i letti, pulito la cucina, lavato i piatti, messo su una lavatrice già che c’eri, e pure stesa che sono le 18, avrà anche finito la centrifuga?”
WSW (Wonder Social Woman): “Caro genitore, io lo so che tu sei in piedi dalle 6.30 e io mi sono alzata alle 9 e già questo non è giustificabile e ti fa rosicare, ma tu ci credi che ho avuto un’ora di tempo per alzarmi da questa sedia? E lo sai che ho pensato che forse fosse meglio nutrirmi? Quindi no, non ho fatto niente di tutto quello che hai detto”.
Genitore disapprova.
WSW: “Anzi sai che c’è? Ora esco. Vado a fare il giro del palazzo, per darmi l’illusione che ho smesso di lavorare pur’io”.
Non c’è nulla che tu possa fare per eliminare dalla sua faccia quell’espressione del “mi stai prendendo in giro, sei solo pigra”. Solo far passare il tempo e, magari, metterti in bella mostra il sabato pomeriggio quando lui è a casa a fare le lavatrici e tu stai nominando Google invano davanti a WordPress.
Amici: loro sono i peggiori (non me ne vogliate). Possono avere tra i 23 e i 34 anni, sanno benissimo quant’è complicato trovare un lavoro “come ce l’avevano raccontato da piccoli”, e dopo un po’ non te lo chiedono neanche più “tucheffai?”. È una domanda che incute terrore.
Ce ne sono certi a cui tieni particolarmente e per i quali decidi di investire tutta la tua dedizione alla causa, per dirgli che sei contenta, è un lavoro figo, potresti addirittura permetterti una stanza in affitto (yuppii), ma quando capiscono che non hai un ufficio cambiano faccia. Sono gli stessi che dopo un po’ di tempo li rivedi e ti dicono:
“Ah, sai che cercano gente a fare la commessa da Zara, ho pensato subito a te”
WSW: “Sono sul punto di piangere per quanto mi lusinghi, davvero, grazie, ma io un lavoro ce l’ho”
Amico: “Ma davvero! E non mi dici niente, dove lavori?”
WSW: “Dove lavoravo l’ultima volta che me lo hai chiesto. Su quel blog, dove scrivo di medicina e faccio un sacco di social e rispondo alle mail”.
Amico: “Ah. Quello”.
Sì, quello. Lavoro ovunque ci sia una connessione wi-fi. Spesso, quindi, dentro casa. Perché ci ho provato ad andare nei bar, per farvi contenti, ma se ti apparecchi col pc per più di quattro ore a un certo punto comincia a girarti intorno il proprietario per capire se ti stai segnando gli orari per pianificarci una rapina, nel bar.
Poi, ci sono le zie. Con loro proprio c’ho rinunciato.
Ce n’è una che è ancora convinta che non mi paghino. Le nostre telefonate si svolgono più o meno così, da due anni:
“E il lavoro come va, bella de zia?”
WSW: “Ah zia, va benissimo, adesso anche meglio, mi hanno dato una sottospecie di promozione”
Zia: “Ah, ma dai? Ma ti danno qualche soldino, sì?”
Sì. Dice proprio “soldino“, perché mica può essere uno stipendio.
WSW: “Ma no zia, sono due anni che ci lavoro solo perché mi stanno simpatici!”.
Altra scena. Altra zia. Che abita a un minuto di macchina da casa mia.
“Ciao gioia, che fai?”
WSW: “Lavoro, tu zia che fai?”
Zia: “Niente mi annoio. Vieni a trovarmi?”
WSW: “Ehm. Sì, mi piacerebbe molto, ma come faccio, devo consegnare l’articolo”
Zia: “E vabbè che fa, passi per un caffè con la tua zietta!”.
Ecco, questo è un problema ancora peggiore dei soldi. Il fatto che lavori da casa, vuol dire tecnicamente che non hai un vero e proprio lavoro. O, almeno, se lo fai da casa puoi staccare quando vuoi. O rimandarlo, quanto vuoi. E se non ti hanno manco dato un ufficio, significa che tutte ste cose che devi fare non sono così impegnative.
Se sei una scema come me, poi, che preferisci alzarti alle 11 e finire di lavorare alle 20, non hai davvero scuse. Dai un’immagine di te davvero poco seria. Poi lavori un’ora in più di quelli che in ufficio ci vanno tutti i giorni eh, ma sono dettagli. Puoi farlo comunque in pigiama. Quindi sono dettagli.
La migliore, comunque, è mia nonna. Perché mi ha chiesto una sola volta quello che facevo, ha capito che non ci sarebbe mai arrivata, e allora l’ha preso per quello che era.
“Lavori?”.
“Sì”.
“Ti piace?”.
“Sì”.
“Bene, vuoi un po’ di polpette?”.
Oh. Grazie nonna.