L’isola. L’arrivo
L’odore della nafta era intenso. Eppure lo respiravo tutto mentre il vento mi schiaffeggiava le guance fredde, s’infilava tagliente tra le palpebre, mi faceva piangere.
Le lacrime sapevano di sale, dell’acqua del mare nero che adesso l’aliscafo tagliava veloce, saltando tra le onde come un delfino. Gli altri passeggeri rimasero dentro a guardare la tv come se fossero a casa, i bambini giocavano, si strusciavano a terra, premevano il viso contro i vetri a cercare la luce dell’isola, il faro, all’entrata del porto. Lasciai la valigia all’interno e salii velocemente le scalette esterne. Arrivai nella terrazza della motonave.
Mi sentii libero e solo. Intorno tutto era scuro. Era aprile. Napoli era già lontana. La sera calava sui pensieri dei miei quarant’anni
Mi sentii libero e solo. Intorno tutto era scuro. Era aprile. Napoli era già lontana. La sera calava sui pensieri dei miei quarant’anni.
Non sapevo dove sbattere la testa. Dentro c’erano solo domande. Lasciare Roma era stata la scelta giusta? Mollare il mio lavoro superpagato, le mie donne dallo stacco coscia spaventoso, il letto con sopra lo specchio che faceva molto porno anni ottanta ma che io adoravo, la collezione di dischi degli Smiths, le cene al giapponese sotto casa. Con me avevo solo Vasco, un Labrador retriever di sei mesi che faceva compagnia a mia madre e un soggiorno già pagato a tempo indeterminato in un casale di campagna, in mezzo alle vigne. L’aveva preso per sé, mia madre. Aveva scelto quell’isola per finire i suoi anni. Non c’era riuscita. Adesso toccava a me.
Il fumo bianco si disperdeva in cielo e formava nuvole morbide. Le guardavo, cercando di individuarne la forma. Ce n’era una che sembrava un gabbiano con le ali spiegate, il becco lungo, leggermente aperto. Un’altra assomigliava a un volto di donna, di profilo, con i capelli mossi, lunghi, che scendevano su una spalla.
Con me tra le braccia indicava gli immensi batuffoli di cotone che segnavano il cielo. Insieme inventavamo improbabili storie
Con me tra le braccia indicava gli immensi batuffoli di cotone che segnavano il cielo. Insieme inventavamo improbabili storie. In quei momenti vivevo una vita parallela. Era come estraniarsi dalla realtà e calarsi in un mondo strano e lontano ma che mi piaceva più di quello vero.
Ora avevo davanti solo un mondo piccolo. Piccolo come un’isola. L’aliscafo stava attraccando. Mi apprestai a scendere. Le luci mi abbracciarono. Trascinai il sacco da viaggio che pesava quanto una valigia. Vasco tirava come un pazzo, abbaiava. Pensavo che avesse visto un gatto. Lo richiamai, severo. Smise di lamentarsi e mi trascinò di fronte ad una grande pasticceria, appena fuori dall’imbarco. In vetrina esposti come gioielli c’erano i tesori di Calise, le sfogliatelle arricciate, i cornetti con le amarene e grandi dolci ricoperti di panna e fragoline. Non avevo voglia di cenare. Addentai una di quelle prelibatezze. Sentii la loro fragranza invadermi il palato. Ringraziai Vasco, soddisfatto del suo cornetto alla crema.
Mi chiesi perchè mia madre aveva scelto quest’isola che non conosceva per morire
Mi chiesi perchè mia madre aveva scelto quest’isola che non conosceva per morire. Portai la testa all’indietro. In alto non c’erano stelle. C’era solo freddo ma ormai niente poteva farmi tremare, neppure lui.
(continua tra due settimane)