La descrizione di un dolore
Il dolore è stato descritto per secoli senza mai raggiungere una definizione chiara, oggettiva, che venga indossata correttamente e globalmente da chiunque senza prerogativa e senza sfumature evidenti. Il dolore è quella sensazione che ti fa stare male, che ti fa piangere, che ti fa sentire senza forze, inerme e ti rende quasi incapace di intendere e di volere. Secondo Wilde dove c’è dolore c’è qualcosa di sacro e Seneca diceva anche che i grandi dolori rendono muti. In un certo senso la sensazione è quella, non avrei voluto raccontarlo, il dolore, questa volta. Allora parlerò invece di chi, senza saperlo, aiuta a sopportarlo.
Grande cultrice di tutto ciò che rimodella l’anima e che lascia cicatrici indelebili in posti invisibili ad occhio nudo, anche questa volta mi sono voluta dedicare ad un po’ di malsano sadismo invece di aspettare momenti migliori. Ti devi operare. Va bene, facciamolo subito.
I miei amici e colleghi di facciunsalto, per l’occasione, hanno voluto omaggiarmi di un’opera che aspettavo da molto, ma che non avevo mai avuto il tempo (o la voglia) di reperire… Forse anche perché, come spesso accade, io dai libri vengo chiamata e questo è il periodo giusto per accettare il loro richiamo. E’ il “Diario di un dolore” di C.S. Lewis che mi ha convinta a scrivere due righe su questo argomento troppe volte dato per scontato. E un grazie a VOI che me lo avete fatto recapitare con grande sorpresa nella mia stanza di ospedale. Da quel piccolo vademecum di un dolore provato per la morte dell’amata arriviamo al mio personalissimo racconto di un momento un po’…così.
Scendo in sala operatoria con serenità, non per le gocce di Valium ingurgitate poco prima, ma perché la percentuale di problematiche che potrebbero insorgere non mi spaventano, non più per lo meno. Ormai sono mesi che digerisco pensieri e timori di ogni genere, che ingoio rospi e che mi faccio imboccare di frasi che non avrei mai voluto sentire, parole che ti si annodano in gola e risposte che perforano l’anima, quindi l’idea che dopo il calore del sonno indotto non ci sia il gelido risveglio non mi tange. Non ho paura come non ne ho mai avuta per tantissime altre situazioni che generalmente incutono terrore alla maggior parte degli esseri umani. Prima di arrivare in sala mi salutano mia madre, la sua amica Elena, che è anche segretaria di Ortopedia e solerte organizzatrice del mio intervento, mia zia Rita e un’amica di famiglia, Michela, con un cuore ed una serenità di fede immensi. Dal basso della mia posizione distesa vedo solo i loro menti e il soffitto dell’ospedale, ma avverto la loro commozione. Andrà tutto bene! Certo, perché qualsiasi cosa accada, sarà quella giusta.
Mi accolgono infermieri di sala gentilissimi, Vallì, la mamma di un ragazzino a cui ho insegnato inglese mi tratta come una figlia e mi coccola in attesa della preparazione. Sono tante le persone che mi rivolgono attenzioni. Mia madre, infermiera presso questo ospedale, è stimata e benvoluta da molti, non possono certo permettersi di essere imprecisi e superficiali. Raccomandata, mi chiamano prendendomi in giro. Arriva il “mio” chirurgo, si accerta che io sia serena, scherziamo su quale gamba sia da operare e mi segna una ics sulla coscia destra per farmi stare tranquilla. Capisco in quel momento che le poche ma buone parole scambiate con lo specialista saranno il preludio di un’adorazione che crescerà con il passare dei giorni. Sorrido, come il mio solito, e la “mia” anestesista inizia la procedura. C’è freddo in sala operatoria ma mi sento riscaldata l’anima dal calore che mi regalano dal primo all’ultimo dei presenti. “Sei pronta Laura? Ci vediamo fra un po'”. Nessuna conta dal dieci in giù… Sorrido, dico Ok!, e mi addormento. Ho sognato; lo so perché quando mi risvegliano “Laura, è finito, puoi svegliarti” sono nel mezzo di un sogno che però non ricordo. E per respirare con un conato aiuto l’estubazione. Sono intontita ma cerco di stare con gli occhi aperti, penso “Beh, sono ancora viva, allora doveva andare così” e mi vengono a salutare altre persone che nel frattempo hanno saputo del mio intervento. Non rivedrò i fautori della mia restaurazione fisica fino almeno al giorno seguente, allora attendo con ansia. Salgo in stanza, arrivano i parenti. Vorrei dormire, ma io, stoica, resisto.
Il post-operatorio è altalenante. Il giorno seguente l’operazione sono un cardellino, quello dopo ancora invece posso descriverlo come se un camion mi avesse livellata con l’asfalto un centinaio di volte. Mi do coraggio e mi scoraggio con facilità. I miei alti e bassi e il mio essere lunatica cronica non possono che incidere sull’andamento della degenza. In più, io provengo da un vuoto generato settimane prima che mi porta, nei momenti in cui l’onnipresente madre si concede una pausa, a cedere allo sconforto, alla solitudine e all’abbandono. Mi sento un numero primo, ma la signora del letto accanto mi chiama “il leone”: “Questa ragazza ha la forza di volontà di un diavolo”. Anche Lucifero però ha i suoi momenti. Cerco di supportarmi inserendo le mie solite cuffiette intrise di rock. In questi giorni i KORN aiutano anche la mia bassa emoglobina a non buttarmi a terra.
La dottoressa Tonzar, anestesista, riporta a mia mamma la rarità del vedere una persona addormentarsi in anestesia con il sorriso e risvegliarsi come tale. Quest’onta me la porterò dietro a vita, l’apparenza solare di una persona come me fa da biglietto da visita. Che sia un bene o un male? Ancora non lo so. Viene ad assicurarsi come sto ogni giorno quando è di turno e vorrei poterci scambiare più di quelle due parole, ma nella mia ben celata timidezza mi limito ad un “Va tutto bene, grazie!“. Lo stesso vale per i giri visita dell’ équipe che mi ha curata, sedata, aperta, lussata, risistemata, ricucita, e risvegliata; ogni giorno, quasi alla stessa ora, più di un “Tutto ok” non esce dalla mia bocca. Compenso sorridendo e con qualche battuta. Avrei voluto poter chiacchierare ore, seduta ad un tavolino con il chirurgo che ha scoperto il mio problema e ha voluto risolverlo. Ma sono una paziente come tanti, non posso rubare tempo e attenzioni.
A differenza di altri giovani con la mia stessa patologia e il medesimo, seppur personalizzato, tipo di intervento, mi riprendo in fretta. Daniele, un ragazzino quattordicenne sceso in sala prima di me, viene a conoscenza della mia presenza solo dopo un paio di giorni ed in quelli a seguire, ammaliato dalla mia forza e dai miei progressi, compie azioni che prima temeva di fare. Mi prende come esempio e mi fa sorridere. Bruciare le tappe mi è sempre venuto facile, così dimezzo la durata della degenza, grazie anche alla presenza di mia madre che instancabilmente mi tiene compagnia quando altri non ci sono e che può comunque monitorarmi da casa.
Ho modo di scambiare due parole in più con il mio “restauratore” per chiedere le dimissioni e ne sono onorata. Ricapiterà dopo un paio di giorni quando, come un’illuminazione, compare davanti a me che attendo fuori dalla diagnostica 1 il tecnico radiologo – e amico – Alberto sempre gentilissimo e disponibilissimo, perché in pausa tra due interventi mi riconosce seduta in sedia a rotelle un po’ affranta dopo un dolore fortissimo avvertito non appena tornata a casa. La paura di aver vanificato il suo operato crea in me un dispiacere enorme. La lastra mostra che tecnicamente, fortunatamente, è tutto ok. Sono contentissima per lui. La mia priorità è sapere che il successo dell’operazione continui a puntare i riflettori su questo medico attento, preciso, innovativo, forse stacanovista ma onnipresente.
Il mio dolore è placato quando parlo con lui. Non solo quello fisico dei punti sulla coscia, delle ancore e delle viti nel femore. Sono il tono della sua voce, il modo in cui ti rassicura e ti fa sentire la persona più forte del mondo. Sono i suoi modi paterni e i dialoghi schivi ma diretti. Quando arriva al momento perfetto in cui tu sei con le lacrime agli occhi – che cerchi di nascondere – perché per un attimo ti lasci andare alla confusione e alle emozioni, e ti libera da un peso enorme mettendoti seduta seppur tutti restino a letto per un paio di giorni… Sono la comprensione e la preoccupazione che mobilitano mezzo ospedale quando è il momento di controllare se è successo qualcosa e la capacità di ascolto che dimostra quando gli racconti cosa hai fatto il mattino seguente le dimissioni – motivo per cui il ritorno dall’ospedale era stato proprio da lui accordato e concesso- che lo rendono il candidato ideale per il mio processo alla società come testimone della difesa. Ci sono pochi individui che salverei se una catastrofe mondiale ci piombasse addosso in futuro. Lui è sicuramente tra questi. La sua umanità riempie anche i solchi che altri hanno scavato nella mia anima…
Passeranno sei settimane prima che possa essere nuovamente nutrita da due minuti di benessere e serenità infusi da questo specialista ortopedico, mago delle tecniche di chirurgia conservativa dell’anca e portatore di professionalità in un mix di caratteristiche per un medico, che rasentano la perfezione. Io attenderò cercando di elaborare ogni giorno questo dolore, magari seguendo la filosofia di Schopenhauer che lo considera il processo di purificazione dell’essere umano.
Non resta che ringraziare chi mi ha accompagnata fino a qui. Da mia madre che notte e giorno si è premurata di non lasciarmi mai sola, il Primo Chirurgo Dr. Turchetto descritto sopra, l’aiuto chirurgo Dr. Barbuio, gli assistenti Dr. Saggin e Dr. Piccione, l’anestesista Dr.ssa Tonzar, anch’essa ricordata sopra, la strumentista Colavit Adriana, le infermiere di sala Moretto Vallì e Ronchiato Sandra e l’infermiera anestesista Salvador Bianca. Un grazie sentito dal più profondo del mio centro del dolore: il cuore. Grazie anche a tutto lo staff del reparto di Ortopedia dell’Ospedale di Portogruaro, Venezia, dal primo all’ultimo, segretaria Elena compresa, con l’augurio di potervi riavere tutti accanto per la prossima sessione di restauro. I parenti tutti che più volte sono passati per assicurarsi delle mie condizioni. Un abbraccio stretto. Ultime, ma non meno importanti le amiche di lunga data che sono passate a tenermi compagnia distraendomi dai momenti vuoti della degenza ospedaliera. Grazie.
E anche questa è andata.
Le foto sono tratte dal mio profilo Instagram al link qui