Antidoti, città invisibili e inferno
Mi chiedo se quell’anulare sinistro che talvolta accarezza con indice e pollice della mano destra un tempo fosse cinto da una fede. Mi chiedo, anche, se quel periodo oscuro di cui va accennando abbia a che fare con la falange diseredata. Ecco al capezzale dell’anulare si aggiunge il medio. Poi la mano destra e le sue prodighe dita si stacca ed è il pollice della stessa sinistra a vezzeggiare l’anulare. Che spirito di squadra, queste dita. Anche senza corona, tu sei e rimarrai il nostro re. Noi ti amiamo, ti adoriamo, ti rendiamo grazie. Il periodo brutto, certo. É la seconda volta che la signora dinnanzi a me ne va dicendo. Ha un casco di capelli biondi che ricorda i telefilm americani degli anni settanta. Gli occhiali, allungati verso l’esterno all’altezza delle aste, pure. Manca la sigaretta, ecco. Nei telefilm degli anni settanta le donne con casco biondo fumano sempre. Possibilmente slim. Però qui siamo al chiuso, siamo in rifugio, siamo in montagna. Non si fuma. Il periodo oramai alle spalle adesso viene etichettato come difficile. E siamo a tre, comunque. Accanto a lei un’altra donna, meno caratterizzabile in un telefilm transoceanico, accenna col capo. Lei conosce, lei sa. Io sposto l’attenzione oltre la finestra. Due bambini intabarrati in giacconi invernali troppo grandi per esili spalle si rincorrono nel piazzale, un cane seduto sulle zampe posteriori li osserva mansueto.
Nella vita c’è bisogno di antidoti. Più se ne tengono in saccoccia e meglio è. Le strade al mattino, nei mesi invernali, sono distopie infernali che necessitano antidoti buoni. Non per la neve, che non scende più. Non per la nebbia, che ci si fa l’abitudine come un po’ a tutto. Le strade d’inverno sono i cunicoli di talpe metalliche con occhi abbaglianti. Ciascuno la sua radio, ciascuno di fretta, ciascuno le sue imprecazioni, ciascuno a modo suo. Forse le strade d’inverno e le scatole sfreccianti sono un’allegoria di quello che siamo diventati, qualcosa che non è più insieme e non è nemmeno più individuo, ma è solamente singolo. Io e la mia auto siamo un unicum, non c’è qualcosa di simile. Io ho i miei problemi e anche la mia auto ha i suoi acciacchi, forse ci sono binomi autista-auto con problemi simili, ma non uguali ai nostri. Dagli altri abitacoli non arriva rumore, non arriva etnia né colore, non arriva significato e nemmeno significante. Si dice nell’Ecclesiaste che tutto è inutile se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale dove ci risucchia la corrente. Ci vuole un antidoto per evitare di essere risucchiati in quel gorgo infernale che sono le mattutine strade invernali. Rompere l’isolamento, invertire il flusso che porta inesorabilmente all’inferno di tutti i giorni. A volte basta poco. Cose del tipo ricordare le auto che si incrociano ogni mattina o i cappotti delle persone ferme alle fermate dell’autobus, o magari immaginare la colazione di anziane signore dietro a finestre illuminate di case di campagna. Ecco, questi sono i miei antidoti per esempio.
Esco dal rifugio. Fa un freddo da lupi. I bambini hanno il naso rosso. Domani, forse, saranno ammalati. Ma a loro non gliene frega uno stracazzo di niente, perché loro non hanno memoria dei dolori del corpo e comunque ci sarà qualcuno che li accudirà. Non fosse per le auto nel parcheggio, che bello il panorama qui. Oggi non ho voglia di vedere macchine. É domenica ma è stata comunque una gran fatica salire fin quassù. E poi mi sono venuti meno gli antidoti. Per la strada, intendo. Quassù invece di antidoti se ne trovano a iosa. Le cime che sovrastano il rifugio dovrebbero essere innevate e invece non lo sono per niente. Sono montagne, sono alberi e roccia. Potrebbero essere forme senza significato. Nelle “Città invisibili” di Calvino si trovano a discorrere Kublai Khan e Marco Polo. Il primo è il padrone di uno smisurato impero e lo paragona alla scacchiera che ha davanti a sé: pezzi bianchi e pezzi neri si susseguono come le città del suo smisurato possedimento, che finiscono così per assomigliarsi fino a giungere quasi a noia e perdere di significato. Ma Marco Polo, dall’altra parte della scacchiera, suggerisce al Gran Khan che la sua scacchiera ad una vista più attenta non è proprio così monotona: il tassello che sta fissando, ad esempio, è stato tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di siccità, come si può indovinare dalla disposizione delle fibre. E che dire di quel nodo appena accennato, residuato di una gemma che tentò di spuntare un giorno di primavera precoce, ma che la brina della notte obbligò a desistere. Marco Polo, che aveva viaggiato per infiniti mondi e steppe e città e infiniti anni era un grande creatore di antidoti, non c’è che dire.
Ritorno dentro il rifugio e mi risiedo al tavolo. Ora è la signora con il casco biondo a guardare fuori. Il viso è sereno. Mi chiedo se in mia assenza avrà accennato nuovamente al periodo difficile lasciato alle spalle. Che bello vedere persone che hanno attraversato le steppe dell’inferno e ne sono uscite in qualche modo purificate, alleggerite. Sebbene il passato poche volte risulta semplice e per la gran parte, come gli inglesi nella loro lingua ben sanno, è un tempo continuo che i suoi effetti fa ricadere nel presente. Ma non è detto che questi siano deleteri. Le strade d’inverno, la sconosciuta via della seta di Marco Polo, il passato anulare della signora bionda. Come il Siddharta di Herman Hesse, ci sono passaggi che volenti o nolenti vanno attraversati per giungere altrove.
Sempre il Marco Polo delle “Città Invisibili” spiega al Gran Khan come ci siano due modi per affrontare l’inferno senza star male: “Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più”. Il secondo consiste invece nel coltivare la meraviglia, imparare a riconoscerla e a darle spazio.
Anche nell’inferno, insomma, ci sono sprazzi di paradiso. Ma non è detto che siamo in grado di riconoscerli subito. Perché a volte c’è un gran chiasso e finiamo per rinchiuderci in abitacoli di lamiera.
Nell’attesa che la nebbia si diradi e il sole torni a scaldare: antidoti.