Viaggio al termine dell’edicola
Tutti e due non ci stiamo, inutile tentare. Senti poi che odore di fumo. Ma che fa questo, fuma dentro la sua edicola? Ora no, ma prima ha fumato. Hai voglia se ha fumato. Senti, senti che roba. Queste sono MS, o Diana o una cosa del genere. No, le Diana non esistono più. Le Diana andavano bene con il caffè. Bevi il caffè, fumi una Diana e la smorzi nella tazzina. Perché nella tazzina? Perché sì. Così aveva detto il mio compagno di banco durante la lezione di matematica. Io guardavo davanti a me boccoli neri e dita affusolate e smaltate di rosso che dolcemente ne seguivano l’ondulazione. E pensavo dove stava la poesia in quella Diana spiaccicata sui fondi del caffè. Ma lui sapeva tante cose, tipo come convincere le ragazze con i boccoli neri ad accarezzare altro che non fossero i propri capelli, mentre io sapevo solamente un sacco di nomi di calciatori jugoslavi il cui cognome finiva in -ic. Poi un giorno mi decisi a provare quello strano connubio caffè, Diana, tazzina. Osservai gli ultimi aneliti di fumo risalire dal mozzicone e pensai che l’unica cosa che quel gesto mi aveva smosso era stato l’intestino. Nonché un senso di vergogna agli strali della barista.
Ripeto, tra un espositore e l’altro c’è poco spazio. Se vai di fretta ti lascio entrare e aspetto, ma in due a darci le culate tra una rivista di giardinaggio e una di caccia, ecco, anche no.
Fingo di interessarmi ad altro e altrove e lascio al signore l’infimo spazio tra gli espositori. Capelli bianchi scarmigliati, occhiali a montatura fine, per nulla sovrappeso. Pensionato, di certo. Tiriamo a indovinare. Massì, fabbrica Barilla. Uno di quei prodotti del fordismo dal lato umano, quei personaggi entrati sbarbati e operai e usciti canuti e responsabili di non so che. Si inginocchia, rovista tra i castelli della Loira e le cascate delle Marmore. Mi guardo attorno. Lo spazio è poco, la carta è plastificata o ruvida o incellofanata, la carta è ovunque. Qui e là si sono aggiunti articoli di Halloween di dubbio gusto, vedo. Come non si rischiasse già di finire intrappolati in ragnatele di riviste e paccottiglia opprimente. Ecco il gran tabagista far capolino dietro al bancone, con la testa bianca intrappolata tra un crogiolo di espositori di carte da gioco, accendini e chissà che altro. Deterge l’indice con la lingua e volta la pagina del giornale posato sul bancone. Scuote la testa. Si gratta la fronte. Le baby-gang del quartiere, immagino. Non ho sentito la porta aprirsi. Un tizio con il naso affilato, il piumino di vernice, i capelli radi e schiacciati all’indietro e la barba fatta da poco mi supera e raggiunge il bancone.
Ho sbagliato. L’articolo era su Israele, Gaza e disastri annessi e connessi. Eccoli discutere a colpi di parole spicce e frasi di circostanza. Ondeggiano tra argomenti prevedibili, arrancano sulle probabilità, sorvolano sugli imprevisti. Fondamentalmente: non sanno per chi parteggiare. Un colpo a Tel Aviv e uno a Ramallah. Va bene così, penso. Accarezzo fumetti e album. Mi sovviene Montale e un verso de La bufera e altro: il naufragio della mia gente. Si salvi chi può, come nella zattera di Gericault.
Le figurine. Ultimo baluardo di un mondo fisico, analogico, imbustato, paziente. Finché ci sarà un bambino che appiccicherà una figurina storta ci sarà speranza. Le mie prime figurine me le regalò un tizio. Non ricordo bene chi fosse, a dire il vero sono indeciso tra due. Ad ogni modo sono entrambi morti, quindi non credo ne verrò mai a capo. Mi viene da sorridere mentre cerco la mia squadra tra le ultime pagine dell’album calciatori. Mi fa strano questa storia del non sapere chi di preciso mi abbia regalato quelle figurine. Anche se le vite di tutti quelli che muoiono hanno una fine, nelle loro vite rimangono aspetti incompleti. Non esiste una vita che sia finita, completa. Più che gli errori, sono i dubbi, le domande inevase, le emozioni inespresse a rimanere prigioniere del tempo. La vita è qualcosa di irrisolto a prescindere.
Comunque, si trattava di una manciata di figurine del campionato europeo di calcio 1988. Peccato fosse il 1990 e sebbene il mondo non corresse veloce come oggi, due anni avevano la loro importanza. Ma a me interessava poco. Ricordo una giornata piovosa di fine estate, le montagne tagliate a metà dalle nubi, il giacchino indossato di malavoglia a simbolo della resa incondizionata della stagione più bella. Ricordo quegli uomini con i cognomi strani e quelle nazioni che iniziavo a malapena a collocare su un mappamondo. Otto bandiere, otto maglie colorate. Che bello non sapere niente, essere una tavoletta di cera, un confuso coacervo di stupore e geni da sviluppare. Nederland. Chissà com’è. Un giorno ci voglio andare. E anche, cos’è questo? Eire? Boh, mai sentito. Massì, anche qui. Grazie per quelle figurine, chiunque e ovunque tu sia. Questa è una storia che forse non avevi previsto. Ed è una storia incompleta, ovviamente, perché mi manca ancora un paese di quegli otto.
Guadagno l’aria aperta. La porta del negozio sbatte dietro di me. A pochi metri c’è l’uomo che voleva condividere il tugurio tra gli scaffali assieme a me. Si sistema un plico di riviste nella giacca e inforca la bicicletta. Meno male che le figurine vanno ancora di moda, dice sorridendo. Entrambi portiamo gli occhi al pacchetto di figurine nella mia mano sinistra. Sorrido. Peccato non vendano più quelle del 2021, dico. Ma non credo possa aver capito. Forse ci pensa, mentre pigia i pedali con tutto il peso del suo corpo.
Bene. É rimasto da capire a chi dare queste figurine.
Creare un’altra storia. Alla fine questo ci è dato nella vita: creare, continuare, sovrapporre storie, espandere la vita.
Non c’è oblio per chi crea storie.
Incomplete, ovviamente. Come la maggior parte degli album di figurine, del resto.