Libellule, fiumi e Bisanzio (feat. fine agosto)
Mi pare di aver trovato un giusto compromesso. Una cosa accettabile per entrambi. Io ti lascio il costume. Centimetri di stoffa da percorrere, pieghe, risvolti, orli e filature ribelli. É tutto tuo, ci puoi fare ciò che vuoi e io prometto di non scacciarti. Però, ecco, in cambio tu lasci stare la mia pelle. Il costato, non sia mai. E la testa, la testa per l’amor di Dio. Ma si sa, le mosche sono come alcune donne: oggi va bene, domani ne parliamo, dopodomani è tutto da rivedere. Alzano il tiro, sempre di più, sempre più in su. Volano alte a rischio di schiantarsi a terra come Icaro. E finisce che ti schianti pure tu, mosca, se non ti togli dall’avambraccio. No, lì non ti avevo dato il permesso di stare. Il costume ho detto, quello blu. Ti schiantassi in acqua. Un attimo, e quella cosa sul sasso che è?
La fine dell’estate fa riaffiorare la storia. É una passeggiata nel cuore di Istanbul, la fine dell’estate. Solo che qui la storia è la tua, là quella dell’umanità. Qui è la sagoma sbilenca di tua nonna che ti precede con il fazzoletto in testa mentre mugugna maledizioni in dialetto, là è una colonna romana resistita alla furia ottomana. Qui è tuo padre che ti dice di uscire, che s’è fatto settembre e l’acqua non è più la stessa, là è la torre dei genovesi, ultimo baluardo di una storia millenaria terminata in un giorno di maggio del 1453.
Ma la storia non finisce, le storie non finiscono mai del tutto. Di Roma ce ne sono state due, chi dice tre. La terra conserva le spoglia, i corpi conservano i pensieri.
Ho visto una cosa bella. Ero seduto qui dove sto ancora adesso, sopra un sasso nel fiume. Un pesce o due erano intenti a valutare se i peli delle mie gambe fossero edibili. L’osso sacro mi doleva, i sassi nel fiume non sono mai comodi per la seduta. L’acqua mormorava stanca il suo poema di fine stagione. Presto nessuno sarebbe più venuto ad ascoltarne il rigoglioso canto. Che con il passare dei giorni e il susseguirsi dei temporali in altura si sarebbe fatto sempre più iroso, disperato, ribelle. Le frasche nel letto del fiume ondeggiavano da una parte e dall’altra, senza sapere di preciso da che parte stare. Ero seduto qui dove sto ancora adesso, quindi, e stavo litigando con quella mosca che non stava ai patti quando ho visto qualcosa di strano nel sasso di fianco al mio. Un attimo, ho detto, e quello che è? Una sorta di baco a pochi centimetri dall’acqua, una testa d’insetto che fa capolino.
La focaccia. Prima di venire al fiume ho preso un pezzo di focaccia al forno. Quell’odore. Era il mio premio quando accompagnavo mia nonna in bottega. Tieni, ninìn. Ma è unta. Poi ti lavi le mani, su, non fare quello di città. A giugno la focaccina aveva un sapore, a luglio ne aveva un altro, a fine agosto un altro ancora. Il sapore era dentro di me. E ovviamente ricordo soltanto quello di fine agosto. Stanno tornando tutti a casa, diceva mia nonna sotto il cavalcavia dell’autostrada. E ascoltavo le macchine sfrecciare sopra le nostre teste. No, rispondevo. Proprio tutti ancora no. Ancora qualche giorno. Ancora qualche settimana. Per favore.
Alla testa ha fatto seguito un corpo smeraldino da cui si sono materializzate due ali. La libellula è oramai uscita dal bozzolo che l’aveva generata e attende non so cosa, il momento giusto forse, per librarsi in volo. Vivere. Però, penso, questa fase è pericolosa. La libellula è indifesa, voglio dire, per un predatore sarebbe un gioco da ragazzi. Io capisco che questa è la legge della vita e la felicità spesso viene e va con un tiro di dadi, ma così senza manco iniziare a giocare non mi sembra corretto, via.
La prima foglia che calpestavo mi pareva un presagio funesto. Avrei voluto tornare indietro ed evitare di calpestarla, di udire quello scricchiolio di linfa perduta. Che gioco facevo a giugno? Ora riprovo a farlo. Sai mai che ribaltiamo tutto. E poi voglio andare al fiume e fare il bagno e stare nell’acqua un’ora come facevo a luglio. Anche se ieri è piovuto e l’acqua è fredda. É finita, fattene una ragione. Cosa è finita? Io voglio decidere cosa e quando finisce. Se una cosa è bella perché deve finire? Per voi è finita. Per me niente finisce, mai. L’avrei fatto per tutta la vita. Avrei continuato a innaffiare piante di plastica, fiori finti, amori scappati. La sindrome dell’estate finita, avrei poi detto un giorno. Sorridendo fuori, impallidendo dentro.
Ali spiegate. Ancora qualche minuto e non avrai più bisogno di me. Diventerai viola, azzurra o forse rimarrai verde smeraldo. Mi sento un incubatore di vite altrui, a volte. Prendete e mangiatene tutti: mosche, libellule, pesci e persone.
Eccoti volare. Come sei brava.
A Istanbul è cambiato tutto. Il nome, la religione, la lingua. Persino le chiese sono diventate moschee.
Eppure ancora affiorano le spoglia di Costantinopoli e Bisanzio. Romani, greci, veneziani e genovesi.
Tutto si conserva, niente si distrugge. Tutto conservo, niente distruggo.
Purtroppo.
Eccoti volare.
Mi insegni?