L’automobilina di latta
Ero seduto in un angolo di una stanza quadrata, ampia, con il soffitto a volta. Non so dire se fosse estate o inverno. Ricordo una sensazione di neutralità, né freddo, né caldo. Forse autunno. Guardavo dal basso dei miei forse non ancora compiuti tre anni, due adulti in piedi, evidentemente felici di vedersi. Un uomo e una donna, mia madre e mio zio. Marittimo di professione, rimaneva lunghi mesi lontano da casa e dai suoi affetti. Davanti a me, uno di loro, posò un’automobilina di latta. Splendida, lucida, di un bel grigio ferro con i finestrini colorati d’azzurro. Solo parabrezza e laterali. Era una furgone per le consegne, un modello anni ‘60, ancora con i passaruota sporgenti e bombati. Regalo di quello zio che sostava a lungo ad Hong Kong e Singapore. Da lì provenivano i giocattoli più curiosi che avessi mai avuto. Ricordo anche una gallina, sempre in metallo, capace di deporre le uova! Aveva le piume rosse e gialle, ma non era morbida come le galline del nonno. In compenso sembrava che il becco sorridesse.
Le automobiline mi hanno sempre attratto, forse, più precisamente, stregato, ancora prima che imparassi a camminare
C’era qualcosa che non mi permetteva di abbandonarmi al gioco, al divertimento, alla distrazione. Qualche mattina fa mi sono svegliato con questo flash, questo ricordo, così vivo, presente, reale. E mi chiedevo cosa non lasciava libero quel bambino, perchè non afferrasse felice l’automobilina di latta. Eppure lo attraeva terribilmente! Guardava in su, osservava gli adulti felici di vedersi, grati per l’incontro. Ai tempi, navigare per mare, lasciare la terraferma non garantiva mai un ritorno. E il bambino avvertiva questa gioia del rientro, così come ne avvertiva la parzialità. L’automobilina di latta rimaneva col suo motore spento sul tappeto. I due adulti erano felici di vedersi ma erano al contempo visibilmente tristi. Nonostante la stanza in penombra, riuscivo a scorgere il sorriso non del tutto disteso di mia madre. Negli anni ho imparato a riconoscerlo al volo. Socchiudeva la bocca, ma un angolo rimaneva serrato. Le donne forti, finchè possono, hanno il dovere di resistere.
Era quella tristezza che non mi permetteva di giocare. Avvertivo che attraverso di me passava la loro consolazione, e per quanto senza un ragionamento, me ne sentivo fortemente responsabile. Parlavano fissando me senza guardarsi negli occhi, ed io non mi sottraevo, non mi allontanavo con in mano il mio nuovo giocattolo rombante. Chissà, forse volevo dare loro più tempo, salvarli dall’inevitabile, dalla necessità di affrontare argomenti di assenza e di dolore. Sì, sarà stato così!
Le famiglie dei marittimi, ai tempi, avevano ritmi di vita del tutto propri e relative necessità scandite dai ritmi degli imbarchi e delle licenze
C’era stato un lutto atroce un anno prima. Perdere un fratello di appena 33 anni non è cosa facile da capire, né tantomento da accettare. Il mio ricordo di quello zio è fatto di voce profonda che mi prendeva in giro, di una sensazione di amore infinito e di lenzuola bianche sotto le quali la malattia lo consumava, ma che lui agitava con le gambe per farmi impressione e poi ridere, ridere tanto della mia paura. Non ho un ricordo in piedi di quello zio. Ho dovuto guardare delle fotografie per avere il senso delle sue proporzioni.
L’automobilina di latta rimaneva immobile sul tappeto, indifferente a quelle mani di bambino immobili eppur bramose. Parlavano di me, ed io mi lasciavo guardare, il più a lungo possibile, evitando di giocare, per regalargli un po’ di tempo in più, un cuscinetto di pace prima che ricominciassero, inevitabilmente, dal giorno in cui si erano salutati! Ora lo so.