I giorni della canicola
Nel pomeriggio il cicalio si faceva insopportabile. Il sole picchiava così forte che le pietre emanavano uno strano odore di muschio bruciato. Le persiane erano chiuse e i raggi, in assenza delle finestre, cercavano altri alleati per riflettere le particelle di luce: comignoli, parti in amianto ficcate qui e là al tempo del boom economico e ivi dimenticate nei decenni a seguire, cocci di vetro, carte regalo, maniglie in alluminio, vetrate condonate, tachimetri di vespe parcheggiate contro i muri. Una luce così intensa che conveniva appoggiare lo sguardo all’ombra, oltre che il corpo. Per i vicoli nessuno. Né uomo, né donna, né cane, né gatto. Bambini manco la sera, figurarsi sotto la canicola. Lucertole, forse. L’anziano della casa gialla vicina alla nostra riposava su una sedia bianca in un qualche cono d’ombra nei pressi dell’entrata. “E basta!” si lamentava. E bestemmiava. Sputava, anche. Si riferiva forse al frastuono delle cicale, forse alla canicola. Un rimprovero veniva da dentro casa. La moglie. Si riferiva forse alla bestemmia, forse allo sputo. Che poi toccava a lei sia ingraziarsi la Madonna, sia pulire la strada.
Riposati, mi era stato intimato. Ma perché? Non ho sonno, mi annoio a stare nel letto. Leggi. Non mi va. Dormi. Ho già dormito stanotte. Pensa. Ma non avevo nulla a cui pensare. Non succedeva mai nulla nei giorni della canicola. Più avanti sarebbero arrivati i belgi, gli svizzeri, i milanesi e forse anche gli inglesi. Avrebbero portato cioccolatini, parole esotiche e gonne a fiori. I cioccolatini di Jacques, i that’s all right di John, le gambe già affusolate e coperte da una leggera peluria bionda di Anna. La maglia sporca di sudore, la bocca di cacao, la mente di infantili sconcezze.
Poi finalmente nella casa tutti cedevano alle lusinghe di Morfeo. Avevo letto di questa divinità del sonno l’inverno precedente, a scuola. Avevo guardato fuori dalla finestra e immaginato il mio paese, d’estate, sotto la canicola. Ma la scuola era in città, la luce fioca e i rami spogli. Così avevo riportato lo sguardo sul libro e fatto un lungo respiro. Magari avevo pensato alle gambe di Anna e alla sua tenue peluria bionda. Alle gonne a fiori delle ragazze più grandi. Romantiche e innocenti porcherie.
Quando in casa tutti dormivano prendevo la palla e uscivo. Che mi poteva fare questa famigerata canicola? Ma va là. Camminavo per i vicoli con il pallone sotto braccio. Incontravo uomini addormentati su sedie di plastica bianca, la bocca semichiusa e l’animo rinfrancato dall’ombra dei muri delle case ammassate l’una all’altra. Altra regola della canicola: gli uomini di qua, le donne di là dall’uscio. La presenza delle seconde era rivelata dalle voci note e gracchianti dei presentatori e da altrettanto noti e gracchianti slogan di pubblicità di gelati.
Il gioco consisteva nel centrare con il pallone un’intercapedine tra grondaia e tralcio di vite. A volte qualcuno si affacciava dalla finestra e mi cacciava via. Non capivo, evidentemente c’era qualcosa di blasfemo nel giocare durante la canicola. Poco male: di muri scrostati, grondaie piegate e tralci di vite era pieno il paese. E anche di case vuote. Case risistemate con i soldi delle rimesse di gente emigrata qui e là per il mondo. Dagli appennini alle Ardenne, dal Magra al Rio de la Plata, dai borghi alle banlieu. Case abitate poco più di un mese l’anno. E gli altri mesi erano una lunga e interminabile attesa. Nel frattempo facevo tornei solitari. Tornei tra paesi. Prima calcia un paese, poi l’altro. Chi sbaglia è fuori, chi vince va avanti. Ma vincevano sempre gli stessi paesi, quelli che mi andavano a genio. Perché baravo. Quando non c’è nessuno con cui barare si bara con sé stessi. Quando non c’è nessuno con cui far l’amore si fa l’amore con sé stessi. E così via.
Poi qualcosa si muoveva. Il tutto aveva inizio in alto, sopra i tetti e sopra il campanile, tra i castagni e le acacie delle piccole montagne che cingevano il paese. Verdi fruscii, segnali d’aria. La canicola finalmente terminava quando il respiro degli appennini giungeva nei vicoli e le foglie delle viti ondeggiavano. E non per le bordate del pallone che incocciavano sul tralice. Si aprivano le persiane, gli anziani si levavano dalle sedie di plastica bianca, le donne oltrepassavano l’uscio, le televisioni tacevano, le aie risuonavano di zappe e strumenti di giardinaggio e coltura.
Presto sarebbero arrivati i belgi, gli inglesi, gli svizzeri e i milanesi. Sarebbero piombati in paese come lanzichenecchi al soldo del re d’agosto.
I cioccolatini, le parole esotiche, le lunghe serate nelle aie tra lampadine al tungsteno, insetti arroganti, cani insonni e gatti in calore.
E le gambe di Anna, forse per la prima volta depilate, da inseguire tra i vicoli scrostati nelle ore della canicola.