Il ricettario
Mentre camminavo velocemente mi sono guardata la punta delle scarpe, erano completamente zuppe.
Mi è venuto in mente per un attimo il ricordo dei miei mocassini marroni bagnati, in quell’occasione correvo tornando da scuola, nel mio paese, in Colombia.
Avevo circa 16 anni e una conoscenza molto parziale del mondo, direi anche scarsa. Sapevo qualcosa del luogo dove ero nata, in alto sulla cordigliera a circa 2600 metri sul livello del mare, gli europei che si incontravano ogni tanto nella pensione di mia madre dicevano che riuscivano a malapena a respirare, che mancava sempre l’ossigeno.
Non ho mai respirato meglio di così.
Sapevo di non dover uscire da sola, soprattutto quando fuori era già troppo buio; sapevo anche di poter fidarmi poco delle persone in divisa. Qualunque essa fosse.
Quel giorno pioveva forte e io avevo dimenticato il mio ombrello a casa, stavo correndo piena di una felicità incosciente e immotivata, tornavo da scuola; ricordo vagamente l’odore dell’aria, degli alberi e delle foglie di felce bagnati, i colori dei fiori di bouganville.
Ho guardato di nuovo le mie scarpe, ma questa volta non correvano lungo la strada sterrata che portava alla porta verde di ingresso della pensione affittacamere di mia madre, oggi correvano lungo Corso Umberto a Torino in mezzo a pozzanghere, alberi spogli e rumore.
Ho sentito un moto di tristezza al pensiero dei miei polmoni che sebbene molto più in basso sul livello del mare sognavano con meno ossigeno e più luce.
Dovevo andare a prendere mio figlio a scuola dalle suore e dopo passare per un saluto veloce da mia mamma; oggi anziché ospitare europei nella sua pensioncina nella calle 35, li curava nelle loro case anni ‘70 di Corso Peschiera. Continuava a fare i loro letti e a dargli da mangiare anche se la signora dove lavorava si era lamentata dell’odore della cucina e del sapore strano dei piatti, così le aveva chiesto di limitarsi a preparare le ricette italiane nello stesso identico modo indicato nel suo curato ricettario.
Mia madre non si lamenta, sorride sempre cercando di far svanire le paranoie che ci ha lasciato in eredità il nostro paese; quelle non è ancora riuscita a farle diventare lontani ricordi. Le fanno ancora paura le strade troppo vuote, o piene di poliziotti, chiunque vestito da militare che giri armato, salire su un taxi troppo tardi la sera, da sola.
Io invece sono più tranquilla, sono arrivata da un pezzo e mio figlio è nato qua, sono andata via dal mio paese abbastanza giovane e quindi ho visto poco della realtà che si respira di là. Nel compenso invece soffro di una nostalgia disperata; la accolgo dalla mattina quando il piccolo mi dice buongiorno e non parla nella mia lingua fino alla sera, quando torno in tram a casa insieme ad altri paesani. Ci facciamo un cenno con la testa, abitiamo tutti più o meno nelle stesse zone, qualcosa sappiamo gli uni degli altri. Questa nostalgia è diffusa solo che in alcuni si nota di più; in me è come un rumore di sottofondo nelle orecchie, continuo, ma sopportabile.
Ci incontriamo la sera in tram, stanchi, spesso con dei sacchetti di plastica in mano col cibo d’asporto che abbiamo preso nei ristorantini di Via Sacchi; c’è tutta una strada con diversi locali latini, un ristorante colombiano, due peruviani e uno cileno. Veniamo tutti da paesi diversi ma per qualche ragione, qua sembra che diventiamo tutti di un unico posto.
C’è Wilmar il ragazzo peruviano, fa l’operaio specializzato e parla quasi senza accento, c’è Caterina, ecuadoriana, si paga gli studi universitari lavorando come cameriera in un bar colombiano, ci siamo io e mio figlio che ci arrabattiamo come meglio possiamo; c’è mia madre che quando la signora del ricettario non è a casa, si cucina le sue ricette tradizionali e le accompagna a un calice di vino rosso piemontese.
L’altro giorno C. la figlia di un’altra coppia di signori dove lavoro mi ha accompagnata in macchina fino a casa, abbiamo parlato molto e mi ha detto che sognava di andarsene via dall’Italia. Parlava di quelli che comandano, mi ha raccontato moltissime storie che non conoscevo di questo paese, parlava con rabbia. Io quella rabbia la sento spesso al telegiornale, la riconosco bene sia in un senso che nell’altro. Noto lo sguardo di disprezzo della signora del panificio di Corso Umberto e il tono di voce diverso che usa con me. La mia amica ecuadoriana è un’eccellenza all’università eppure il suo professore la chiama Carmencita perché dice che tanto là vi chiamate più o meno tutte così, sghignazza, ma anche lui è pieno di rabbia.
I ragazzi che ogni tanto vengono a trovarci mentre facciamo la coda fuori dalla questura per i soliti giri di documenti ci parlano in maniera decisa e forte, ci danno sempre dei fogli per assistere alle assemblee dove ci saranno altri ragazzi come loro, urlanti e arrabbiati; ci invitano a reagire, a manifestare.
Io a C. ho detto che non voglio andarmene invece. Mio figlio è nato qua e a 18 anni gli daranno formalmente un documento; io intanto prendo il taxi da sola, anche la sera, ho un buon pediatra, aspetto i miei documenti, organizzo gite in Liguria al mare, lavoro. Non me ne faccio niente delle occhiatacce e delle assemblee.
Mi piace l’odore del vino piemontese e accompagnarlo ai miei piatti colombiani. La musica di Carlos Vives nelle cuffie mentre aspetto il tram, scende la pioggia e le mie scarpe sono bagnate.
I miei polmoni sono abituati alla fatica e torneranno in cordigliera, quando sarà il momento.