Piccola ballata degli oggetti feticcio
Mi porto dietro un libro, dico. Poi però il libro non c’ho voglia di leggerlo. Magari mi metto su una panchina al sole e mi si chiude un occhio, poi l’altro e il libro cade giù. Passa una signora e pensa: poverino che disgraziato. Già successo. No, grazie. Il libro comunque lo porto con me che non si sa mai. Anche qualcosa d’altro, oggetti. Non uso il libro e non uso gli oggetti, ma penso: perché stasera non scrivo un qualcosa dal titolo “Dell’inutilità dei tempi morti”. Sottotitolo: i tempi morti sono la morte. Che schifo di roba. Mi meraviglio anche solo di averla pensata. Ad ogni modo devo trovare il modo di passare queste due ore, appunto, morte. Cammino e scruto, penso cose che finiscono per mischiarsi con la mia ombra e quindi perdersi. Un’occhiata a destra: giardinetti, campetto da calcio, bambini che giocano. Massì. Mi siedo un attimo sulla panchina. Mi prenderanno per un malintenzionato? Nel caso ho la risposta pronta: è più interessante lei, signora, di suo figlio. Schiaffi. Ma anche applausi.
Che sofferenza vedere un pallone e non poterlo calciare. Qualche giorno fa ero a un corso che si teneva in palestra. Palle gialle, palle rosse, palle blu, palle sparse di qua e di là. Calciami. Lasciali perdere e calciami. Lo vedi quel tabellone là in fondo? Ecco, lì mi devi mettere. Accarezzami con il collo del piede e hop! fammi volare. Finito il corso lo faccio, promesso. Adesso no, non sono mica più un infante.
Appunto. Li lascio giocare. Però come vorrei. La palla, come resistere alla palla?
Comunque, io più che questi bambini che giocano (male) mi sento come quel bambino che gioca nell’erba con quel giocattolo che sembra un robot. Sembra, perché fino là non ci tiro mica. C’ha provato quante volte la madre a staccarlo dal robot? Con i coetanei che giocano, con altro gioco, con il gelato magari. Manco per scherzo, quello vuole: il suo robot.
Io lo capisco. Dicevo del pallone, ad esempio. Da bambino ne volevo uno ad esagoni bianchi e neri, il modello classico di una volta. Il pallone arrivò il giorno del mio compleanno. Però era un po’ diverso, c’era anche del verde e del rosso, forse per via dei mondiali, forse chissà per che altro. L’ho rigirato nelle mani e poi ho detto “bello” senza punto esclamativo, senza guardare negli occhi chi me lo aveva regalato e senza guardare nemmeno il pallone. Una mattonella, forse. Poi però quello è diventato il mio pallone. Frustato, fustigato, scarnificato fino alla camera d’aria. Quello e solo quello e non mi portate niente altro che tanto è questo vecchio rudere ruvido il mio amico.
Oppure i libri. L’atlante che mi porto dietro di casa in casa ed è ancora convinto che Praga sia la capitale della Cecoslovacchia, il libro scardinato sui mondiali di calcio che si ferma al rigore di Roberto Baggio a Pasadena, un libro di viaggio di una minuscola casa editrice sulle montagne minori il cui autore manco a googlarlo.
Altri oggetti: un cd live dei Pink Floyd uscito in una raccolta iniziata da qualcun altro, un orsacchiotto che in verità è un coniglio ed era già vivo e vegeto ai tempi del Giro di Moser, un pupo di nome Orlando triste, solitario e anche un po’ finale.
Quindi non faccia così signora, non insista a levare quel robot. Potrebbe diventare il compagno di una vita che tra l’altro, a sentire i climatologi e i geopolitici, non si preannuncia manco troppo semplice. Ci sono oggetti a cui doniamo una vita. Forse perché sulla fedeltà degli esseri umani non è cosa farci troppo affidamento, forse perché abbiamo bisogno di qualcuno che non ci giudichi nemmeno con il pensiero, forse perché abbiamo bisogno di qualcosa a cui mostrare senza vergogna quanto siamo deboli, fallaci e in definitiva del tutto mascherati.
A volte non mi sento molto diverso da quelle genti che migliaia di anni fa incidevano vagine sulle rocce per propiziare la fertilità delle madri e dei campi. Saremo mai abbastanza per tutto quello che ci circonda che è grande e a volte fa tanta paura? Però certe cose non si dicono. O si dicono sottovoce. O si incidono su una pietra. O si affidano a oggetti.
Le mie ore vuote sono finite. Alla fine sono passate veloci. Mi incammino. Madre e bambino mano nella mano dinnanzi a me. Nella mano destra di lei le chiavi dell’auto. Nella mano sinistra di lui il suo robot.
Resisti, Jeeg.
Altro che resilienza.