Scheda 13 – La storia di Mohamed
Scheda 13
La storia di Mohamed
Mi chiamo Mohamed, e ho 27 anni.
Non è stato facile, attraversare l’Africa è pericoloso. Ho ricevuto molte minacce, mi hanno anche tenuto prigioniero in Libia, in un bunker, con altri fratelli eritrei. Ricordo le urla delle donne, con i capelli bagnati di kerosene e dati a fuoco. Quanto dolore, quanto dolore. I bambini in ginocchio, di fronte a me, costretti a pisciare in delle ciotole, costretti a pisciare e a bere, mentre quelle bestie ridevano.
Non è stato facile, ma fortunatamente io ce l’ho fatta, sono arrivato a Lampedusa.
Lì ho conosciuto delle persone molto buone, che mi hanno curato, mi hanno dato da mangiare e mi hanno permesso di far sapere a mia moglie e ai miei figli che stavo bene, che ero vivo. Solyana, mia moglie, si è messa a piangere dalla gioia, erano mesi che non aveva più mie notizie, mi credeva morto. Poi sono stato trasferito a Messina, in un centro di accoglienza ma ci sono rimasto poco. Infatti dopo meno di una settimana mi hanno portato qui a Bologna. La Caritas mi ha accolto in una comunità per rifugiati in via temporanea e mi ha aiutato ad imparare la lingua. Mi piace l’italiano, è una lingua molto musicale e ho fatto in fretta ad imparare le cose più semplici. Questo mi ha permesso di trovare un lavoro. O meglio, non l’ho trovato io, sono stati i ragazzi della Caritas a trovarlo. Parlare l’italiano mi ha permesso di fare colpo sul proprietario del panificio e così mi ha assunto per sei mesi. Lui era siciliano, abbiamo parlato molto della sua terra, e ho capito che assomiglia tanto alla mia. È stato gentile con me. In fondo non mi conosceva, nessuno gli assicurava che ero una persona perbene, ma si è fidato e io lo ringrazio tanto. Purtroppo non mi ha potuto rinnovare il contratto. Le tasse da pagare erano troppe e lui non riusciva a coprire tutte le spese. La comunità presso la quale ero ospite non poteva accogliermi a vita, era passato già troppo tempo e visto il mio impiego ero in grado di affittare casa e vivere da solo. E così ho fatto. Il mio primo salario l’ho spedito tutto alla mia famiglia. Che emozione che ho provato.
Lasciare il lavoro come panettiere non è stato facile. Ho provato a chiedere ad alcune aziende se la mia laurea in agraria poteva essere utile ma mi è sempre stato risposto che qui in Italia non aveva alcuna validità. Ho saputo da un amico che un uomo del sud stava cercando uomini per la costruzione di un palazzo e quindi mi sono subito presentato da lui. Anche lui è stato gentile e mi ha messo subito in prova per tre settimane. Terminate quelle, per le quali non ho ricevuto alcun salario, ho chiesto se andavo bene oppure no, e mi è stato risposto che per il lavoro da svolgere e nonostante la mancanza di esperienza potevo essere adatto. È passato un altro mese durante il quale lui mi ha pagato in modo regolare, ma non mi ha fatto firmare nessuna carta, nessun documento che provasse che ero assunto. Ho chiesto delle spiegazioni e mi è stato risposto che l’assunzione era in mano al commercialista e mancavano giusto un paio di giorni e sarei stato in regola. Avevo una gran paura che venissero a fare dei controlli e si accorgessero che io lavoravo in nero. Avevo faticato tanto per ottenere il permesso. Sono passate altre tre settimane e del contratto non se ne fece nulla. Chiesi ancora delle spiegazioni e lui mi rispose che la legge italiana era lenta e ci voleva un po’ di tempo per sistemare tutto. Avvocato, io ho cercato di non fare cattivi pensieri, ma mi sentivo preso in giro. Nonostante questo ho continuato a lavorare, dovevo per forza guadagnare dei soldi per la mia famiglia.
E poi l’incidente.
Ricordo che i miei compagni di lavoro avevano fatto delle storie perché il ponteggio che avevamo montato era vecchio, poco sicuro, e loro iniziavano ad avere paura. Anch’io in effetti ne avevo, anche se di ponteggi non me ne intendo molto. Il capo quel giorno ci fece un discorso a tutti, dicendoci che aveva fatto verificare a dei tecnici tutto il materiale, compreso il ponteggio, e non c’era da preoccuparsi. E così abbiamo continuato a lavorare. Stavo portando del cemento in alto, al quarto piano del ponteggio. Uno dei miei compagni ha urlato forte e mi ha detto di aggrapparmi che parte del ponteggio stava venendo giù. Non ho avuto dei buoni riflessi. Venendo giù però ricordo di aver pensato a mia moglie e ai miei bambini. Pensavo di morire e di stare sprecando un’occasione buona per regalare alla mia famiglia una vita diversa. Ma non sono morto. Grazie a Dio non sono morto. Mia moglie ancora non sa che non posso più camminare. Non so quando glielo dirò. Mi ricordo anche che non ho perso subito conoscenza. Ho sentito il mio capo dire ai miei compagni che dovevano stare zitti, che io lavoravo in nero e rischiavano tutti di avere guai. Poi sono svenuto. Non ricordo altro.
Mi chiamo Mohamed, ho 27 anni e sono ancora vivo.
Foto 1 di Mwabonje: https://www.pexels.com/it-it/foto/foto-dell-uomo-che-indossa-la-camicia-rossa-1812634/
Foto 2 di Kellie Churchman: https://www.pexels.com/it-it/foto/fotografia-di-paesaggio-del-corpo-d-acqua-1001682/
Foto 3 di John-Mark Smith: https://www.pexels.com/it-it/foto/busta-di-carta-marrone-sul-tavolo-211290/
Foto 4 di M&W Studios: https://www.pexels.com/it-it/foto/gru-metallica-in-cima-all-edificio-238211/