Biciclette sgonfie e soldatini di piombo
Una fatica Signoreiddio, una fatica arrivare lassù. Se provo a regolare il fiato, finisce che non respiro più. Allora faccio zig e poi zag e disegno delle semicurve sull’asfalto. Così va meglio. Zig e zag. Le semicurve oramai assomigliano sempre a degli otto e le ruote della bicicletta mi sembra non avanzino più. Sui pedali, sui pedali. Il corpo in avanti, oltre il manubrio e pure l’ostacolo. Guardo la ruota davanti, guardo le granelle di ghiaia staccate dall’asfalto. Sto salendo così piano che le potrei contare. Ma ci sei? dico. Ansimo. E devo ammettere che spero di no. Che ti sei fermato a rifiatare, ad aspettare un’immaginaria ammiraglia, un’inesistente cambioruote. Se soffri anche tu soffriamo in due, ma se soffri più te è meglio per me. Non è bello quello che penso, non è carino quel che dico, ma il sudore mi riga le gote e la dignità gocciola sulla canna della bicicletta. Ci sono, mi dici. Sono contento, dai. Stai dietro, però. Se mi superi mi cade la testa sulla ruota e rotola giù. Proprio adesso che si vede la chiesetta. Stai dietro, da bravo. Che io sono giovane e tu meno. Che io sono cresciuto con Chiappucci e tu con Gimondi, io con Asprilla e tu con Rivera.
La scusa era sempre quella. Che dalla finestra di quella casa si vedeva lo stadio. Madonna mia. Come se non lo avessi saputo che da solo non ci potevo stare in casa. Poi lo stadio. Non lo avessi mai visto. Ci vivo. Ci soffro. Ci rido. Ci piango. Dimmelo, dimmi la verità: sei piccolo e coglione, se ti succede qualcosa, ed essendo piccolo e coglione è probabile ti succeda qualcosa, finisco in galera, stritolata dai sensi di colpa, bannata dai vicini, insultata dai parenti. Vengo, vengo, stai tranquilla. Ma lo stadio oggi non mi interessa. Ecco, fai i tuoi lavori che io guardo i soldatini di piombo. Tranquilla, la vetrina è chiusa, li guardo da fuori e non tocco nulla. Sono così belli nella vetrina, austeri e luccicanti. Se li tocco ho paura di perdere la magia. Come quella volta che ho toccato il cemento liquido immaginandolo della consistenza dello stracchino e invece era come sabbia bagnata. Il mio preferito è quello francese con la marsina blu. Voglio fare il soldato, dico. Tu non rispondi. Se non rispondi significa che è una stronzata grossa. Perché? Che male c’è a volere una marsina blu e un cannoncino di piombo?
Tu pensa se la fontana della chiesetta sul colle fosse secca. C’è acqua, vivaiddio, c’è acqua. Fai prima tu, poi riempio la borraccia io. Guardo quella lapide sul muro, intanto. Davanti la lapide la valle e le sue montagne. Una bella visuale, dici. Questa un po’ meno, dico. E indico la lapide sul muro. Sorseggi e fai cenno di sì. Tre o quattro cognomi per una quindicina di morti. Cerco le case attorno. Oggigiorno non ci sarebbero nemmeno quindici persone da mandare in trincea. E quelli che ci sono manco sarebbero più arruolabili. Nella prima guerra mondiale c’erano. Quasi tutti parenti, quasi tutti contadini, quasi nessuno alfabetizzato. I soldatini dell’appennino. Di piombo avevano solamente le vanghe. Bevo. Sento l’acqua fredda passare nello sterno. Faccio una smorfia. Mai visto tanta gente morire tanto male. Dico. Ma è una citazione. Se la cogli, buon per te. É meglio se scendiamo, dici. É meglio dico. Pace all’anima loro, diciamo.
Mi chiedesti se mi piacevano i soldatini di piombo. Quando mi facevi quelle domande era sottinteso che stavi pensando a un regalo. Io guardavo fuori dal finestrino del bus. Foglie per terra, foglie che cadevano. Soldatini in carne ossa con cartelle al posto dei moschetti. Tirava un po’ di vento. Mi strinsi nella sciarpa di riflesso. Ci pensai a lungo.
Meglio di no, dissi infine.
Forse ci rimanesti male, che il regalo di Natale era già pronto.
Ma noi non avevamo una vetrina. E il loro posto era in vetrina.
Belli, tristi, austeri.
La chiesa è lassù, noi quaggiù. Tanta fatica per salire, così poco tempo per scendere. La ruota dietro della tua bicicletta è sgonfia, dici. Non te ne sei accorto? Non me ne sono accorto. Forse anche per questo in salita ho faticato tanto.
Ancora uno sguardo lassù, con la nuova consapevolezza di aver affrontato il tutto con una ruota sgonfia.
La lapide non si vede. Eppure c’è, nella chiesetta di un paese dimenticato dalle fibre ottiche e dai piani di sviluppo.
Quattro cognomi, quindici soldati.
Belli, tristi, austeri.