La casa
Quando ho comprato questa casa avevo circa trentacinque anni.
Ero in una di quelle classiche fasi, da molti descritta, di crisi: avevo un lavoro che detestavo, vivevo a Torino e mi sentivo come dentro a un meccanismo oliato male e macchinoso dal quale non riuscivo a uscire.
In una buissima notte di febbraio di fronte a un piatto di sushi dall’aspetto disperato portato a casa da un ragazzo altrettanto affaticato, ho avuto una specie di illuminazione: voglio iniziare una nuova fase. Quando l’ho comunicato a mio padre continuava a chiamarla sarcasticamente crisi di mezza età precoce. Io invece continuavo a chiamarla liberazione e sapevo dove mi avrebbe portato. La cosa che più mi aveva convinto del senso di tutto, era stata l’impressionante velocità di azione che ne derivò.
Di lì a poco le cose sono andate come dovevano andare: ho trovato una casa fuori dalla città in Val di Susa, una borgata in alto sopra uno dei paesi vicini ai laghi, ho lasciato il lavoro e mi sono trasferita nel giro di cinque mesi.
La sensazione era esattamente quella che si prova in macchina quando si va un po’ veloci e c’è un dosso alto, quel momento della discesa in cui lo stomaco non è pronto ancora al movimento e si crea un vuoto tra il diaframma e la pancia. Continuo.
Dieci anni dopo ripassavo tutte le scene del mio incosciente e cieco coraggio mentre seduta sulla panchina fuori all’ingresso del mio rifugio, aspettavo la famiglia interessata alla casa. Questa casa nordica vicino al Musinè, la montagna magnetica e ufologica della valle. Non potevo finire in un posto migliore.
E quindi questa è la casa che vuole mettere in vendita? Mi ha chiesto l’agente immobiliare.
Si non ne ho altre, gli ho risposto.
Non sarà facile, è molto lontana dal paese non possiamo chiedere molto, mi ha detto.
Va bene vediamo cosa si può fare, ho detto.
Ha dieci anni di sudore e amore questa tana mistica. Quando sono arrivata era una catapecchia circondata da tutta la bellezza che i miei occhi riuscivano a comprendere.
Odio tutti gli agenti immobiliari da case Ikea, tutte con le stesse identiche cucine a isola in acciaio nero o bianco, con i mobili per la TV illuminati, con pochissimi libri. Odiavo quei video che mostravano orgogliosi ai potenziali acquirenti in cui denaturavano questo posto pieno di grazia.
Da lontano avevo visto arrivare la macchina bianca di quella famiglia, l’ennesima. Erano una mamma, un papà e due bambine. Le piccole sembravano davvero scocciate e pure un po’ il marito, mentre cercava di convincerle a collaborare; ho pensato che la visita sarebbe andata come le altre nelle quali qualcuno avrebbe denigrato lo spazio, il disordine, gli animali, il prezzo, la distanza e se ne sarebbe andato senza salutare. Ma la bambina grande cambiò quasi immediatamente registro quando arrivarono i due cani più socievoli ed entrò nel mio paradiso.
La moglie invece era subito scesa dalla macchina sicura e con un gran sorriso, lo sguardo che abbracciava tutto il panorama; si fermò guardando la croce sulla montagna.
Quella montagna con la croce è il Musinè? Mi ha chiesto.
Si, è una montagna magica, ho risposto.
Lo so, che incredibile bellezza, mi ha detto continuando a sorridere. E mi scusi per il caos che mi porto addosso.
Le bambine infatti avevano iniziato a scorrazzare per tutta la casa seguite dai cani e ridevano rumorosamente mentre il papà chiedeva insistentemente di non toccare nulla.
Negli ultimi anni non vorrei ammetterlo ma quel tipo di caos mi era venuto a mancare e io avevo deciso di costruirmene uno meno tradizionale accettando alcuni animali randagi portati da una amica. Lei gestiva un canile spesso sovraffollato e io ero diventata la sua ancora di salvezza: in quel momento vivevo con quattro cani, circa sei gatti e un cavallo bianco.
Una notte d’inverno, mentre mi preparavo una cena a base di biscotti di pan di zenzero e latte e cucinavo tonnellate di pasta in bianco e pane per il mio zoo personale, avevo iniziato a pensare a Pippi Calzelunghe.
Era il mio libro preferito da bambina, penso di averlo fatto leggere a mio padre quasi ogni sera dai cinque ai sette anni almeno; adoravo il senso di libertà, l’irriverenza, la solitudine come valore primordiale su qualsiasi compromesso.
E forse io ero diventata come lei.
Anche se il mio cavallo non l’avevo chiamato Zietto e non avevo una scimmia di nome signor Nilsson.
Invece avevo un compagno col quale ho avuto la sensazione ad un certo punto di stare compromettendo troppo di me stessa. C’è troppo disordine, ci sono troppi cani, Amazon non arriva fino a qua, mi manca andare a fare gli aperitivi, internet non funziona mai, dobbiamo andare via, mi diceva. Insomma.
Chiaramente non era solo quello.
Pippi sarebbe molto orgogliosa di me perché all’epoca non avevo ceduto, nonostante avessi perso un po’ l’abitudine alla solitudine e la cosa mi spaventasse non poco; lui invece aveva deciso di andarsene senza molti rimorsi a dir la verità. Non ho detto niente e non ho grandi rimpianti a proposito.
La casa magica l’avevo fatta come volevo: poche cose, colori chiari e un parquet. Moltissime piante rampicanti, i miei poster di gioventù sui film e le opere di teatro che amavo da giovane. Una scala bianca portava dal piano terra al primo piano, una invece in legno naturale più piccola, era appoggiata tra il solaio e il pavimento del primo piano e si usava per raggiungere la stanza padronale al secondo. C’erano libri ovunque appoggiati in maniera totalmente improvvisata, cucce, coperte, il camino sempre acceso.
La mamma si fermava su questi dettagli, mi faceva tantissime domande, avevamo gusti comuni e alla fine sembravamo quelle classiche anime affini che si incrociano per pochi minuti per poi perdersi di nuovo; potremmo essere diventate amiche.
Uscendo dalla stanza in alto si arrivava in un terrazzino appoggiato sulla parte alta della collina sopra la quale era costruita la casa magnetica; dal terrazzo si spuntava su un sentiero e poi da lì si arrivava a un recinto; oltre quello c’erano due sedie di legno, un tavolo, la mia teiera da campeggio e una roulotte, al di là il bosco.
Nel recinto abita il mio cavallo bianco.
C’è da pulire un po’ il terrazzo, oggi c’era vento e non ho avuto il tempo di farlo, mi continuavo a scusare.
Il marito ha chiesto, ma il bosco fa parte della proprietà?
Si, ho risposto.
La bambina più grande aveva individuato il cavallo nel recinto e aveva iniziato a correre verso di lui, la mamma l’aveva ripresa mentre chiedeva scusa anche lei.
Mia figlia sarebbe felicissima qua, è il tipo di posto dove vorrebbe vivere o forse sono io, ultimamente mi sono sentita inserita in un meccanismo infinito, involontario, per niente felice, tra lavoro, impegni…sono un po’ stanca; ho vissuto troppo in città, mi dice.
Si scusava perché pensava di stare andando troppo sul personale e l’agente immobiliare iniziava ad avere un’aria insofferente.
Conosco quella stanchezza, non deve scusarsi, le ho risposto.
Come mai vuole vendere questa casa? Mi ha chiesto.
Non so in cosa consiste questa irrequietezza che spesso ci prende la vita e ci stravolge senza un’ordine apparente; sembriamo i rami degli arbusti di more sul mio terrazzo, col vento forte.
Quest’aria di avventura non mi permette di stare ferma, avverto questo tempo fragile che mi obbliga a vivere molto bene, in maniera consistente, senza fermarmi.
Sono sicura di aver visto nel nostro scambio di sguardi il desiderio di diventare l’una come l’altra; per poi scambiarci di nuovo in una fase diversa, più in là.