Le piante di Flora
Mi raccomando Rosa’, ché queste piante sono l’unica cosa che mi rimane viva di mia madre!
Un macigno preso e poggiato sul cuore.
Ecco cosa fu per me quella frase di quattordici anni fa.
Maria Rita, fresca di matrimonio, lasciava la sua casa paterna e al suo posto arrivavo io.
IO, che faccio morire pure le piante grasse.
IO, che quando mi vedono arrivare, le piante sembrano implorare: Uccidici adesso per favore! Non farci soffrire!
IO, che quando mia madre mi mandava giù nell’orto a prendere il basilico le portavo la menta.
Insomma IO, la persona meno adatta a prendersi cura di qualunque genere di pianta.
Certo però non potevo tirarmi indietro e, investita di questa nuova carica, mi accinsi a raccogliere tutte le informazioni possibili e inimmaginabili necessarie a tenere in vita quelle piante.
Chiesi a Marietta, mia madre, la regina dei pollici verdi, anzi l’Imperatrice, colei capace di riportare in vita orchidee morte con rianimazioni pari a quelle di un chirurgo in sala operatoria, lei, che non si capisce appunto come abbia generato me e mia sorella, entrambe killer pluri ricercate di ogni essere vegetale, e che appena udì per telefono di questo mio verde incarico, si emozionò tutta, con l’orgoglio di chi pensa: Forse questa volta ce la farà ad imparare come ci si prende cura di una pianta!
Orgoglio e speranza di mamma!
Ovviamente io non ricordo nulla di tutte le indicazioni meticolose che mi diede.
Ricordo però che come prima cosa mi liberai di alcune.
Non le diedi via. No.
Ne portai alcune al cimitero, da Flora appunto. Altre alla nuova casa di Maria Rita, all’ingresso. Avevano dei bei vasi ornamentali, erano grasse e sembravano avere tutta la voglia di resistere. Non fu così, sia quelle al cimitero che quelle a casa di Maria Rita negli anni si seccarono.
Paradossalmente restavano in vita proprio quelle di cui mi occupavo io e che erano a casa, sopportando travasi nei momenti assolutamente meno indicati, mancanza d’acqua che nemmeno nel deserto, spostamenti vari.
Inizialmente resistevano.
Re-esistevano.
Ed è stato gratificante, lo ammetto.
Certo mi bastava andare a casa di Nilde o di Giovanna per capire che tutto questo enorme impegno che credevo di mettere era veramente il minimo: loro sì che sono come Marietta, e come Flora.
Io proprio no.
Ricordo ancora le prime piante nuove che provavo a mettere sul balcone: morivano nel giro di settimane.
Le piante di Flora, invece, vivevano.
E fu così per diversi anni.
Poi, lentamente, qualcosa iniziò a cambiare. Le mie piante, quelle più forti ovviamente non certo le delicate, cominciavano a moltiplicarsi e a vivere. Io imparavo a travasare, spostare, addirittura a togliere le foglie secche!
Le piante di Flora però, lentamente, se ne andavano.
Ed io mi sentivo triste.
È successo di tutto in questi anni. Mi sono sposata col figlio di Flora, le ho dato due nipoti e dopo dodici anni mi sono separata e sono rimasta in questa casa che non è mia, ma che la legge mi assegna per crescere i miei bambini, un po’ come quattordici anni fa Maria Rita mi affidava le piante.
Oggi, quando rientro a casa, la prima cosa che noto sono le piante su in mansarda: le portò mia madre sei anni fa, e così come le portò lì rimasero. In mansarda c’è una giungla selvaggia che si autogestisce e per me può rimanere così nonostante i rimproveri di Marietta sulla mia noncuranza.
Poi salendo le scale guardo i miei vasi dipinti, le mie aloe super prolifere che vengono da Ardore e che devo continuamente invasare, altre piante grasse che mi ha dato Giovanna, e le ultime quattro piante di Flora rimaste in vita.
L’altra settimana c’era anche il ficus, o meglio ciò che ne rimaneva: un intreccio di rami secchi e alti e niente più.
Marietta mi aveva detto a gennaio: ‘nda mu jetti! È tuttu siccu!
Angoscia.
Buttare il ficus? No. In questi anni sembrava sempre morto e poi si riprendeva.
Non me la sentivo di buttarlo.
Poi l’altro ieri l’ho fatto: i rami se ne sono venuti così, senza opporre nessuna resistenza, e la terra sembrava aprirsi a un nuovo respiro.
In quel vaso enorme ho poi piantato il piccolo ficus che avevo comprato lo scorso giugno e che a stento resisteva agli attacchi del mio gatto e alle pallonate dei miei figli. E mi sono sentita serena.
Allora ho capito.
E mi ci sono voluti anni per farlo.
Ho capito che sono state le piante di Flora a prendersi cura di me e non io di loro.
Mi hanno insegnato ad essere me stessa su una strada che non era la mia.
Mi hanno insegnato che la Vita accade, a prescindere, e a prescindere finisce.
Mi hanno insegnato che l’Amore si dà senza aspettative.
Mi hanno insegnato che bisogna lasciare andare per non morire del tutto.
Mi hanno insegnato ad essere grata e riconoscente alla Vita.
E soprattutto mi hanno insegnato che la libertà di essere me stessa non posso aspettare che me la concedano gli altri: devo essere io per prima a liberarmi dalle mie prigioni.
E io non lo so se è tutto nella mia mente, ma mi piace pensare di avere avuto e avere ancora un legame speciale con Flora, che realmente non ho mai conosciuto.
Non so quanto ancora mi accompagneranno le sue ultime piante; di certo fin quando avranno ancora qualcosa da dire, a me o a chi verrà dopo di me.
Magari ride leggendo queste cose, pensando che non ho capito nulla, ma respira a polmoni pieni come quella terra nel vaso del ficus secco: respira come chi è libero di volare in alto, lontano dai ricordi poco reali di chi non l’ha mai conosciuta, ma può vivere la propria Vita con la libertà che a lei stessa la Vita ha negato.
Foto di EKATERINA BOLOVTSOVA: https://www.pexels.com/it-it/foto/paesaggio-natura-secco-foglie-5849954/
Foto di Maureen Bekker: https://www.pexels.com/it-it/foto/piante-succulente-verdi-1207978/