Di cani anarchici e lunigianesi confusi (una storia vera)
Allora c’era questo cane che era un po’ balordo e qualcuno lo chiamava zingaro perché si diceva fosse di una famiglia di zingari che abitava vicino al fiume e altri chiamavano lo disgraziato, con quell’articolo un po’ medievaleggiante davanti all’aggettivo, perché non era tanto bene in arnese. C’era anche chi diceva che fosse un cane da caccia scappato e perso per via della fifa del cinghiale o forse del botto del fucile e a me pareva l’opzione più sensata e anzi avevo creato una teoria più avvincente ancora dove il cane era appunto fuggito, ma non per fifa, bensì per scelta. Era il tempo in cui mi portavo l’enciclopedia in bagno e seguivo il filo semantico di parole che mi rimandavano ad altre parole. Alla fine ero arrivato a questo termine che mi sembrava bello e coraggioso: anarchia. Cosa può essere anarchico? Avevo sentito parlare di anarchici, dalle mie parti ce ne sono sempre stati, ma a me quei tomini pittoreschi più che “anarchia” mi pareva potessero rappresentare la voce “alcolismo”. Avevo bisogno di un altro modello, una rappresentazione più alta per il mio ideale. Un giorno appoggiai il tomo sul bidé e dissi: ma certo, il cane. Ad ogni modo, comunque si volesse definire quel cane, la regola era una sola: mangiare si, toccare no. C’ha la rogna. C’ha il tifo. C’ha altre cose. Altre cose cosa? Mah, malocchio, cose brutte, cose del satanasso. E diamo da mangiare a un satanasso? Si, ma è un cane. Se non gli dai da mangiare San Antonio se la prende a male. Che caos.
La Lunigiana del resto è stata evangelizzata relativamente tardi. E un po’ a una qualche maniera, mi viene da dire. E da gente un po’ particolare, mi sento di aggiungere. Però non è il caso di aprire contenziosi su fatture, malocchi e longobardi vari. Come gli evangelizzatori, anche il cane un po’ balordo e un po’ filosofo si faceva, a mio parere, portatore di un verbo, in quanto ogni tanto lo si vedeva in giro con altri cani al seguito. Che per spirito di verità occorre dire che cambiavano spesso, vuoi perché qualcuno finiva al canile, vuoi perché stirato da un auto, vuoi perché lui lì aveva tante storie ma poco cibo e allora fanculo all’anarchia e Franza o Spagna purché se magna. Lui no, lui duro e puro. No Franza e manco Spagna, evviva l’anarchia. Ad ogni modo io di questa indole missionaria che scorgevo nel suo modo di fare avrei anche parlato a qualcuno, ma ero convinto che sarei poi finito davanti a una vecchia Signora con i capelli bianchi raccolti in piccoli fermagli, le rughe grandi come solchi nell’orto, i denti radi come pioppi nel prato e a una tavola imbandita di uova, olio e altre robe per segnare non so cosa. Non volevo essere segnato. I segni rimangono. Poi mi prendono in giro. Macché scemo, sono segni che vanno via. E allora a che servono?
Ero un piccolo materialista in una terra che accendeva ancora i falò per equinozi e santi patroni. Messa, vespero e processione prima di tutto, però una bruciatina agli spiriti maligni sempre meglio darla. I cani erano tra i pochi illuminati. I cani di mio nonno, ad esempio, seguivano il principio machiavellico secondo cui tutti i tempi tornano e le persone assieme a loro. E i cani pure. Avevano giusto due nomi e quei nomi si tramandavano a intervalli regolari. Questo Bill? No, quello prima. Ma quando è nato Boby, quel Bill c’era già? Si, ma non questo Boby, l’altro Boby, quello prima di questo. Ah, ok. Manco i sovrani merovingi.
Ogni tanto andavo a osservare questa terra strana dal suo ventre. Dall’origine di tutto. Dalla venere madre: il fiume. Dal letto del fiume si può osservare questa grande valle chiusa a trecentosessanta gradi. Sembra una grande scodella. É come essere un gamberone in padella: scivoli da sponda a sponda, ma non ne esci. Non è una prigione, è solo che le cose fritte hanno più sapore. Spesso si palesava il cane balordo e un po’ anarchico. Mi guardava, si immergeva, faceva un paio di piroette attorno a sé stesso, usciva, si scrollava. Poi si sedeva a qualche metro da me.
A volte mi sentivo un po’ solo o avevo solamente i miei problemi che poi erano i problemi di tutti. Allora non guardavo più le piante, non ascoltavo più il vento e i rumori lontani, non osservavo più montagne e paesi.
Guardavo il cielo. Cercavo un segno. Interpretavo. Speravo. Promettevo. Do ut des.
Poi abbassavo la testa. Il cane non c’era più. Né lì vicino, né nel fiume, né nella boscaglia.
Siete tutti uguali, deve aver detto allontanandosi. Gli abitanti del cielo cambiano, voi della valle mai.
Siamo tutti uguali.
Ora e sempre.
Nei secoli dei secoli.
Amen.