Siamo nelle mani di Dio
“Siamo nelle mani di Dio”.
Mia nonna intercalava questa espressione ogni volta che raccontava un fatto.
“Semu ‘nté mani du Signuri”, mi diceva, e io che ero bambino ci credevo e pensavo che ci fosse un meccanismo del quale non ero pienamente consapevole, ma che avrebbe funzionato alla perfezione per arrivare a un risultato, per mano, appunto, di un Dio.
E pensavo anche che sto Dio, poraccio, lavorava h24, con una capacità di pianificazione esagerata, per riuscire a fare andare tutto come doveva andare, e a farlo andare a me, a mia nonna, a mia mamma, a Don Saro del bar, e a tutte le persone che da piccino conoscevo. Che lavoraccio! E senza mai fare casini… che mito.
Fila D posto 5, Teatro Kismet.
Sul palco c’è la mia faccia, riflessa da specchi che sovrastano il palco. Entra un uomo che è una donna che è Mercuzio che è Mercurio che è una prostituta che è talmente tante lingue e tante cose che mi mette addosso una confusione ammaliante e apocalittica.
Confusione.
È la parola chiave di questa storia, perché Anfitrione è questo, è il classico esempio di quella che viene chiamata commedia degli equivoci, basata proprio sulla confusione, in questo caso creata tra i personaggi umani e le divinità che ne assumono le sembianze. Una storia di confusione ma senza confusione di intenti.
Il dio Giove escogita un inganno ai danni di Anfitrione, eroico re di Tebe. Il padre e sovrano degli dei per poter passare una lunga notte d’amore con Alcmena, bellissima sposa di Anfitrione, prende le sue sembianze e si presenta a lei. Mercurio, per aiutare il padre, assume l’aspetto di Sosia, servo di Anfitrione. Alcmena, vittima inconsapevole dell’inganno divino, accoglie il marito come se con lui avesse passato una notte di sesso sfrenato e fra i due nasce un acceso litigio. Anfitrione, quindi, la accusa di adulterio e fra di loro finisce quasi a mazzate.
È una storia di amore e di passione, che la regista Teresa Ludovico decide di ridisegnare in chiave napoletana, calando il mito in una famiglia camorrista, in cui l’onore viene messo alla prova e la femmina accusata di vilipendio.
C’è un ritmo altissimo e costante per tutta la messa in scena. Gli attori danzano sulle parole, delineano i contorni di due mondi totalmente contrapposti, quello umano e quello divino, ma talmente simili da non capire se in fondo il mondo è lo stesso, così come i vizi e le virtù. Uno spazio scenico costruito ad arte, con specchi che riflettono e colorano, lingue che si intrecciano e pistole che sparano a salve perché “senza e te nun pozzu stare pecchè m’appartiene”.
È l’apocalisse.
Fino ad arrivare all’epilogo, con un Anfitrione bambino e tenerissimo, innamorato di una bambina dai lunghi capelli biondi a cui dedica poesie d’amore, figlio di un padre che gli urla addosso “nun vali niente”, e Giove che decide di mettere ordine nel caos, rivelando le verità tenute celate fino a quel momento, e la grande festa per Alcmena, che mette al mondo due gemelli figli di due mondi, figli di una grande famiglia napoletana allargata che, nonostante tutto, ha conservato l’onore.
“Siamo nelle mani di Dio”.
“Ok, nonna, ma sicuro che possiamo fidarci?”
Abbiamo visto Anfitrione
al Teatro Kismet di Bari
Regia e drammaturgia Teresa Ludovico
con Michele Cipriani, Irene Grasso, Demi Licata, Alessandro Lussiana, Michele Schiano di Cola, Giovanni Serratore
musiche M° Michele Jamil Marzella, eseguite dal vivo da M° Francesco Ludovico
spazio scenico e luci Vincent Longuemare
coreografia Elisabetta Di Terlizzi
costumi Teresa Ludovico e Cristina Bari
cura della produzione Sabrina Cocco
collaborazione letteraria Lucia PasettiSi ringrazia l’Ufficio Stampa