Scheda 12 – La storia di Rodas
Scheda 12
Questa è la storia di Rodas
Oggi è il mio giorno libero.
Ho deciso di staccare la spina e cambiare aria, respirare, provare a spostare dal cuore tutte le storie sentite e tornare a sentirmi, provare a ritrovarmi.
Mentre cammino e osservo questa terra rossa sotto i miei piedi, sento il mio nome.
È Maria, una delle infermiere che lavora con le persone sieropositive. Mi chiama e mi dice che ha bisogno del mio aiuto. C’è una storia da raccogliere, una mamma da ascoltare, e serve la mia penna, il mio orecchio, servo io.
“Il mio nome è Rodas, sono una giovane mamma di 31 anni e ho l’HIV.
Vengo da un grande villaggio che si chiama Adì Maké.
Ho 3 bambini, sono il mio tesoro più grande. Gli ultimi 2 li ho concepiti quando ero già sieropositiva.
Fortunatamente per loro li ho partoriti sani, non hanno l’HIV e ringrazio Dio, ringrazio Dio ogni giorno.
Anche mio marito è portatore dell’infezione. Insieme veniamo qui per essere curati con gli antiretrovirali che ci prescrivono.
Ho scoperto di essere malata durante la mia seconda gravidanza, nel 2010. Adesso il test per l’HIV è obbligatorio per tutte le donne incinta ed io ho seguito la profilassi per evitare di trasmettere la malattia al mio bambino.
Non vi nascondo che scoprire di essere malata, di essere stata contagiata è stato come un pugno in pieno viso, così improvviso, inaspettato, non riesco a descrivervi a parole quello che ho sentito, desideravo solo di morire, solo di morire.
Morire avrebbe salvato chi mi stava accanto, non avrebbe permesso che io, col mio corpo infetto, li potessi contagiare.
Ma dentro di me portavo un bambino, il mio bambino, e uccidere me significava condannare lui. E che colpe ha un bambino che non è ancora nato?
Così mi sono fatta coraggio e insieme a mio marito siamo venuti qui, in ospedale.
Il mio villaggio dista circa 40 chilometri, la strada da fare è molta. Ci sono dei centri sanitari più vicini ma qui riesco a sentirmi a casa, riesco a non pensare per un momento che potrei morire. Il personale mi aiuta, mi consiglia, non mi giudica. E ricevo anche un aiuto alimentare, che Dio li benedica.
Io so che avrei potuto non essere contagiata, so che sarebbe bastato che mio marito me ne avesse parlato prima, ma ormai mi trovo in questa condizione ed è necessario alzare la testa e guardare avanti. I dottori mi hanno donato la serenità di pensare che vivrò ancora, e per questo seguo la cura in modo preciso. Le pillole da prendere sono tantissime e mi provocano molti disturbi. Ho visto il mio corpo cambiare, cambiare tanto. Ci sono stati giorni in cui non riuscivo neanche a mettermi in piedi, ma c’erano i miei figli, i miei tre meravigliosi figli a darmi la forza.
In questo paese non è facile essere malati di HIV. La gente cerca di evitarti, evita anche di toccarti. Da qualche mese ho confessato ai miei genitori di essere sieropositiva, si sono messi a piangere. E anch’io ho pianto. Ho pianto per la profonda delusione che gli ho procurato.
Gli amici, i vicini, gli altri abitanti del villaggio non lo sanno. Forse troverò la forza di gridarlo al mondo un giorno, ma adesso non ce la faccio, e poi a che servirebbe? A nulla, sarebbe del tutto inutile. Si ritorcerebbe contro i miei bambini che verrebbero derisi e puntati come i figli dell’infetta.
Quando vengo in ospedale incontro gente come me che viene a fare il controllo e ci fermiamo a chiacchierare. È strano poter condividere con qualcuno quello che si prova e vedere lo sguardo dell’altro che capisce perfettamente quello che stai dicendo, quello che stai provando.
Io non sono sicura di ciò che Dio ha previsto per me in futuro, ma c’è una cosa che mi auguro con tutto il cuore e per cui prego e spero ogni giorno: vedere ancora i miei figli crescere, diventare grandi e finire la scuola”.
Foto 1 di ArtHouse Studio da Pexels: https://www.pexels.com/it-it/foto/clima-paesaggio-natura-rosso-4321309/
Foto 2 di Git Stephen Gitau da Pexels: https://www.pexels.com/it-it/foto/persone-che-si-tengono-per-mano-1667850/