Il semaforo
Ieri quando guidavo è successa la cosa più strana: sono arrivata al semaforo, mi sono fermata perché era rosso e ho alzato la musica della radio, c’era I’m only sleeping dei Beatles.
Dice più o meno così,
“Please don’t spoil my day
I’m miles away
and after all I’m only sleeping”
Non c’è stato niente di strano in questo ascolto in verità, ma nella sensazione che ne seguì.
Ho avuto voglia di scendere dalla macchina e distendermi in mezzo all’incrocio. Arenarmi. Spiaggiarmi, proprio così.
Non so come altro definirlo.
Come una balena dopo essere fuggita ai cacciatori, ai sonar, all’inquinamento dell’oceano.
Posando le sue enormi e sgraziate membra e dicendo, non fatemi perdere altro tempo, sono lontana mille miglia, io sto solo dormendo.
I curiosi attorno avrebbero iniziato a tirare fuori il telefono per riprendermi, i bambini a segnalarmi, gli automobilisti sarebbero impazziti e probabilmente anche molto infuriati, ma a me non avrebbe fregato proprio niente; se non capiscono questa balena stanca che stava facendo loro ritardare sulla tabella di marcia della loro vita, non mi avrebbe interessato.
Peggio per loro, si sarebbero persi il segnale.
Mettiamoci tutti così, fermi, a dormire.
Abbiamo diritto a prendere atto del nostro peso nel mondo, anche se ci sembra che in acqua siamo più leggeri; se non ci fermiamo, se siamo sempre dentro alla corrente dimenticando addirittura di uscire per respirare, non ci sarà modo di prendere la direzione giusta, nuoteremo a vuoto, in cerchi; non è facile affacciarsi a questa consapevolezza.
In mezzo all’incrocio ben distesa, avrei lasciato finalmente che le braccia, le gambe, le spalle e la testa si appoggiassero con tutta la gravità per terra e sarebbe stata soltanto la protesta pacifica di un animale stanco, con troppe regole da seguire e troppo poco tempo. Di un animale enorme nel suo ecosistema, ma piccolissimo in riferimento al cosmo intero.
Così si sente questa balena al semaforo, guarda il cielo, chiude gli occhi con calma e anche se sente che sta iniziando a mancarle l’ossigeno fa un paio di respiri molto profondi. Abbozza un sorriso, rilascia tutto il peso della propria enorme massa. Non deve muoversi e va bene così. Risparmia tutte le proprie energie, blocca l’adrenalina; non può fuggire e non deve.
Ci sono momenti in cui il pensiero di non farcela è forte ma noi poi ce la facciamo.
Attraversiamo oceani in tempesta con grande proprietà, siamo temerari come Phileas Fogg, crediamo di poter farcela a fare il giro del mondo in 80 giorni e siccome diventa il nostro unico obiettivo non ci curiamo di nient’altro.
Ma durante la traversata succedono tante cose e imprevisti.
E alcuni possiamo controllarli e circumnavigarli ed evitarli; ma altri, no.
Questi ultimi sono una fregatura.
Io non sono una maniaca del controllo, ma è diventata sempre più chiara la certezza di avere pochissimo peso in molti eventi della vita mia e del mondo e, in mezzo alla corrente, di cavarmela bene a dormire perché il mio subconscio non mi richiede le tante risposte alle quali non so rispondere.
La nostra generazione non è molto preparata, ce ne siamo accorti? Non siamo come Phileas Fogg.
E le domande non diminuiscono con l’età, i bambini ne fanno tante di domande e gli adulti rispondono in maniera spesso distratta e se non conoscono la risposta possono sempre inventare qualsiasi cosa o sbuffare e svicolare; ma quando gli adulti siamo noi, a chi chiediamo? Le domande aumentano, ma la conoscenza e le capacità di rispondere no.
Da piccola avevamo questo tavolo da pranzo rotondo in vetro opaco, molto spesso, di un raggio di circa un metro; io lo ricordo enorme. Mi capitava nei momenti di noia di sedermi sulla sedia anni ’70 e guardare sul piano l’immagine riflessa della stanza. La porta al contrario, la lampada capovolta, il tetto che diventava un pavimento. La sensazione dopo un paio di minuti mi dava un brivido incredibile: in quale delle due parti io ero reale? Me lo chiedevo davvero. Se la stava spassando di più quella bambina al di là del vetro? Insomma le cose andavano meglio a lei, in quell’altro mondo oltre il tavolo, in generale? Poi abbassando la testa guardavo i piedi in acciaio, la moquette, il nostro pavimento e tutte queste domande svanivano.
All’epoca nuotavo sotto l’ombra dei miei genitori, respiravo quando dicevano loro di farlo e la corrente era quella che tracciavano loro. Ero una balenottera leggera allora, ma potevo già intuire il peso della realtà.
Capivo le loro difficoltà, vedevo nelle loro facce il senso del peso e infatti facevo domande semplici perché avevo chiara la loro mancanza di risposte. Non andavo oltre la superficie del mare. Ero riservata, ma gli interrogativi iniziavano a sedimentare e creare massa in me.
Mi piaceva molto il tempo dei semafori rossi quando li usavo per baci veloci, per cambiare la stazione della radio fin quando non trovavo la canzone giusta da ascoltare, oppure per guardare le case e cercare di indovinare le storie dietro alle finestre; non avevo certo considerato questo risvolto esistenziale a partire dalla bimba seduta in sala da pranzo a chiedersi sulla realtà, non avevo certezze su questa anima da balena spiaggiata.
Google non ha tutte le risposte, nemmeno gli adulti. Io non ne ho, di sicuro.
È stato sempre così in minor o maggior misura, il mondo è sempre stato un luogo fatto di tante contraddizioni, lo so.
Non mi distenderò questa volta a dormire in mezzo all’incrocio. La mia protesta pacifica inizierà solo con l’alzare il volume della radio quando arriva una canzone giusta, dal ricordarmi di respirare ossigeno e rituffarmi ancora una volta in mezzo alla corrente, nonostante la stanchezza.
“Keepin’ an eye on the world going by my window
Takin’ my timePlease, don’t wake me
No, don’t shake me Leave me where I am I’m only sleeping”