Furto 50 – Sconfinamenti
Il concerto era per piano solo. Buio in sala, un fascio debole di luce sul palco e un filare luminoso di led lungo tutta la tastiera. Il pianista eseguiva sue composizioni e ogni volta, dopo l’applauso che meritava il singolo brano, si dilungava nella presentazione di quello successivo. La parola sconfinava nella musica e la musica nella parola. Quasi a fine spettacolo, l’artista spiazzò il pubblico:
“Questo pezzo non ha ancora un titolo, lascio a voi la scelta. Se qualcuno dopo il concerto vorrà propormene uno, ne sarò lieto”.
E raccontò quando e perché aveva composto quel brano. Quindi breve pausa di silenzio; poi la musica prese il sopravvento. Fu allora che accadde…
Lei si alzò e iniziò a parlare, senza volto, con la foga di chi taceva da troppo tempo. Il pianista cercò di trovarla, quella voce, senza riuscirci, corrugando la fronte, stringendo gli occhi, mordendosi il labbro inferiore, con il cuore a tamburo battente.
“Non eravamo al Montmartre, ma sulla collina di Belleville. Mi stavi accanto e mi stringevi la mano, e io la tua. Guardavamo i colori di un tramonto autunnale, così caldo e penetrante. Sapevamo entrambi che il sole avrebbe portato via con sé qualcosa di noi, cambiando la rotta di quei passi battuti nel tempo, di quell’amore sbagliato. Tu guardavi l’orizzonte, io guardavo te, e tenevo in mano una rosa bianca, quella che avevi colto per me, anche se sapevi che non amavo i fiori recisi, ma a te non importava, volevi che avessi qualcosa di bello, quella sera, qualcosa di tuo. Fra quei vicoli suonavano Edith Piaf, e tu, fermandomi, mi baciavi sulla bocca e mi cantavi no, rien de rien, no je ne regrette rien, no proprio niente, no, non mi pento di niente… com’eri libero e felice amore mio. Era stato un errore incontrarsi, un errore parlarsi, un errore partire e provare a dimenticarci assieme. Che stupidi! Come si può dimenticare un amore forte come il nostro? È vero, sì, Sara ti aspettava a casa, e Giacomo aspettava me, ma che colpa avevamo noi di noi, che colpa avevamo di quel sole che stava scappando e delle nostre mani che non volevano lasciarci… no, non mi pento di niente, non mi pento neanche io amore mio, e adesso trovo il coraggio di dirtelo, qui, con l’anima in gola e il fuoco nella testa. Il sole resisteva ancora a Belleville, e tu, chiudendo gli occhi, hai alzato la mano e hai iniziato a suonare l’aria, come se non esistesse confine fra il possibile e l’infinito. Come posso dimenticare quella melodia, come posso dimenticarla adesso che l’hai suonata per te, per me, per noi. Te lo ricordi amore che era per noi questa melodia, te lo ricordi?”
Il pianista rimase immobile. Un silenzio che attraversava le sue mani e arrivava ai suoi occhi. Lei si avvicinò, lentamente, scoprendo un viso segnato dal tempo, i capelli raccolti come quel lontano giorno di ottobre. E si sedette accanto a lui, le mani sulle sue. Lui la guardò come se nulla fosse cambiato, come se le loro vite avessero sconfinato solo per errore. Iniziò di nuovo a suonare, con lei, su di lui, guardandola negli occhi…
“31 ottobre 1987, è questo il titolo della nostra canzone, amore”.
Note: Incipit a cura di Onofrio Pagone; racconto partecipante al contest del Teatro Kismet
Foto 1 di Daniel Spase: https://www.pexels.com/it-it/foto/tasti-di-pianoforte-grigi-e-neri-734918/