Di treni e di Trani
Stavolta i miei ricordi pescano nei viaggi in treno. Momenti diversissimi della mia vita, in rigoroso ordine cronologico e una me davvero irriconoscibile.
Il primo episodio risale a oltre trent’anni fa, quando ero studentessa cantantessa innamorata, parte di un duo musicale e di arti varie col mio amore del tempo che fu. Stiamo tornando da un provino in una ridente cittadina del nord, famosa per un festival canoro. Uno dei tanti in cui si dice “vi faremo sapere”, per dire che “no”. E alla fine sapevamo solo che era stato un buco nell’acqua. Se lui ci rimaneva male, a me non fregava poi troppo. Lui voleva vivere di arte, a me bastava vivere di lui. Quando cantavamo insieme, poi, succedeva il miracolo. Arte e Amore si incontravano e si prendevano a morsi. Non vinceva nessuno; anzi, meglio, si vinceva entrambi. La spada di luce azzurra dei suoi occhi, la fiamma scura dei miei. E le due voci, così diverse e così indispensabili. Eravamo col resto della banda, quella sera , semitossici e pazzi totali. Che lui comandava con il solo sguardo. Quella sera era triste, e allora tutti tristi insieme a lui. Ma non io. Io, no. Mai avuto comandanti. In più, ero piuttosto bevuta di birra. E io l’alcol lo reggo poco. Fece da cherosene alla mia fiamma e fu provvidenziale. Iniziai a cantare fortissimo, sguaiata e complice, stringendo il mio amore blu. Così buffa e fuori tempo da riuscire a farlo ridere. E iniziò a cantare con me, e i semitossici ad accompagnarci con strumenti improvvisati, due bacchette su un sedile, un’armonica a bocca… e poi mi addormentai sulla sua pancia calda e fui cullata come una bambina. Sognai di vomitare, troppo pigra per farlo davvero. E ci venne incontro la stazione. E un sogno ancora intero, cantò il poeta.
Un paio di anni più tardi studiavo sempre, e sempre cantavo, ma nella doccia, non più davanti a un pubblico. L’amore artista si era dileguato dietro i suoi sogni di gloria, io avevo trascinato l’anima strappata dai parenti americani per quasi un anno, per tornare a laurearmi in patria, e single, e un po’ meno strappata. Ma sempre in cerca di lavoretti e occupazioni, sono un tipo orgoglioso, le cose mie le pago da me. Tornavo, in treno, da un colloquio. Pensavo che amavo il treno, che mi mancavano i cugini, che mi sentivo strana, tutto quel tempo senza amore. Io sono un animale da compagnia, la condizione singola mi mette a disagio. Eppure sono sempre stata sola, anche in coppia. Stranezze della vita. Lo scompartimento deserto, ma era ancora giorno; avevo i libri, la mia musica in cuffia, non mi mancava niente. Sarei arrivata alla puzza e al rumore della mia città col sole ancora alto. All’altezza di Bologna sale un tipo giovane adulto che con un sorriso di circostanza mi chiede se c’è posto da me. Gli punto i fari neri in faccia e parte il mio messaggio telepatico : “Vedi altri, fenomeno? Certo che c’è posto da me”. Ma sento un calore strano quando incrocio due occhi di incredibile verde, che sorridono dietro un ciuffo corvino. Si siede di fronte, senza smettere di sorridere. Tento di ritornare al mio romanzo, ma sento quegli occhi addosso. E non riesco a concentrarmi. Passa una mezz’ora buona. Io leggo per finta. Lui mi guarda tacendo. Lui mi piace parecchio. Devo fare qualcosa, muovermi. Allungo le gambe stando ben attenta a non sfiorarlo, e di risposta lui allunga le sue. È estate, fa un caldo boia, io indosso una delle mie gonne batik da contadina balinese, me lo dice ancora oggi, la mia “creatura” : “a ma’, tu nun c’hai mezze misure, d’inverno te vesti da sceriffo e d’estate da contadina”. La mia moda non è cambiata… Lui ha un ha un fresco lino elegantissimo, color salvia, in linea con gli occhi smeraldo. Avvicina le sue gambe alle mie, ha i pantaloni leggermente sollevati e con una mossa geniale mette a contatto la caviglia nuda coi miei stinchi di capretto. Al contatto con la sua pelle mi sale come una lingua di fuoco dalle gambe in gola, avrei voglia di urlare e invece resto immobile e muta. A parlare è lui, e comincia a raccontarmi degli aneddoti sull’autore del libro che leggevo, è laureato in lettere moderne ma farà l’attore, è uno scorpione ascendente capricorno (lo sapevo, un satanasso), è di Livorno… che bello che io studio lingue e quante lingue parlo e quanti viaggi faccio e quanti anni ho. Sono maggiorenne, può stare tranquillo. Tra parole, occhiate, pelle calda e dopobarba mi sta ipnotizzando completamente. Mi ricorda il serpente Kaa del Libro della Giungla. Comincio a sudare freddo, e non è certo menopausa, con una scusa mi alzo, devo andare in bagno, mento. E invece sento l’esigenza di allontanarmi da lui. Non sono proprio abituata alla condizione di giumenta singola, ecco. Angelo di un focolare inesistente, ma la natura difficilmente cambia. Me lo ritrovo dietro mentre mi fermo a respirare nel comodissimo snodo precario e puzzolente che divide un vagone dall’altro. Poco più alto di me, mi inchioda alla parete con gli occhi negli occhi. Mi cade il libro che ancora tenevo tra le mani, si china a raccoglierlo ma invece di rimettersi in piedi subito resta in ginocchio e infila la testa sotto la gonna. Oh, my… sento il suo fiato e la sua lingua tra le gambe e sento un desiderio strano, nuovo, simile a una sonora sbornia, come se neanche fossi io, quella che si sta aprendo alle sue labbra esperte. Il movimento sussultorio dello snodo mi aiuta, mi sveglio dal torpore e lo scanso delicatamente. Si rimette in piedi e tenta di baciarmi… con un filo di voce gli dico: “ma non so neanche come ti chiami… come ti chiami?” E lui: “ma che ti frega del nome”, e sento le sue mani frugarmi dappertutto. Poi penso che no, non posso scopare con uno che non si degna neanche di farmi sapere il nome… “Lasciamo stare”, gli dico, e mi dirigo verso un altro vagone, tanto siamo quasi arrivati, troverò un altro posto a sedere. Sento la sua voce incerta in lontananza, dietro di me “Comunque, mi chiamo Carlo”… ma non torno indietro. Peccato.
Tanti ma tanti anni e calci in culo dopo. I nomi di quelli e quelle che mi hanno fatto soffrire li ho saputi bene, e non li dimentico. Stavolta sono in partenza verso Milano, la mia amica delle elementari neosposa cinquantenne (come je va) ci ha invitato, me e la mia strampalata famigliola, a visitare la villetta nel verde alle porte della città in cui ha riprodotto la vita dei suoi sogni: uno stronzo fisso dentro casa per sentirsi “la sua signora”, la figlia di primo letto ventiquattrenne che trova sempre una scusa per restare a dormire dal fidanzato o dalle amiche in un contesto civile, e la comodità di farsi 10 minuti di auto al freddo e al gelo e 30 di metro per andare al lavoro, ogni mattina, in centro. Però si svegliano con gli uccellini, trullallà. “De gustibus”, dicevano gli antichi. Arriviamo in stazione in ritardo dopo rocambolesco parcheggio, e una volta sulla banchina mio marito si ricorda di non aver lasciato le chiavi di casa al nostro vicino per foraggiare il gatto nel weekend che saremo via. Con un latrato lo rispedisco a casa a rimediare e rimango con mister simpatia, il figlio adolescente. Trascino lui per una manica e con l’altra mano il trolley sbilenco e mi avvio mesta e furibonda insieme, verso il nostro binario. Vuoto, cazzo. Sarà partito, il treno, penso. E adesso? Sconsolata guardo il tabellone e leggo di un treno in partenza per Milano da un altro binario. “Allora é lui!”, grido a me stessa; avevamo in mente il binario sbagliato! Comincio a tacchettare con figlio e valigia ugualmente inerti al seguito, è inverno e stavolta sono in uniforme da cowboy. Salgo sul treno come John Wayne su un purosangue e mi dirigo verso i nostri posti. Li trovo occupati, sacrilegio, da una famiglia di tre grassocci, mamma sbiondata, babbo stempiato e figlio ebete. Esasperata da questo nuovo intoppo sventolo sotto al naso dello stempiato i biglietti coi posti assegnati e ordino loro di alzarsi perchè abusivi. La Marilyn obesa comincia a berciare come una bertuccia mentre il marito tenta timidamente di difendere le loro ragioni. Ragioni che mi rifiuto di ascoltare, quelli sono i nostri posti, punto. Mio figlio intanto tra l’annoiato e il terrorizzato si attacca al telefono per rintracciare il padre. Comincio ad alzare la voce e la famiglia mi guarda come fossi Linda Blair dell’esorcista. Il resto del pubblico viaggiante si gode lo show… Lo stempiato mi fa, granitico: “Noi veniamo da Trani e dobbiamo andare a Milano. Non ci spostiamo da qui!” E io: “Ma Roma è tanto bella, che ci andate a fare, da Trani fino a Milano, fermatevi qui!” Mio figlio mormora : “A maaa'” con aria sconsolata, e si caccia le cuffie nelle orecchie. I grassocci non accennano ad alzarsi. “Ok” ,minaccio, “vado dal controllore!”. Vado, sola. Mio figlio stavolta non asseconda il mio delirio. Intercetto il controllore in fondo al vagone, gli spiego il fatto, lui guarda i biglietti e mi spiega che mi trovo sul treno sbagliato. “Ma va a Milano!” Piagnucolo. “Per Milano parte un treno ogni quarto d’ora”, sorride lui, parlando piano e lentamente come si fa coi matti o i bimbi piccoli. Fine. Hanno vinto i pugliesi. Scendo dal treno, incrocio la faccia preoccupata del coniuge, che ci aveva raggiunto avvisato dal figlio. Abbiamo dovuto rifare i biglietti, che fiscalismo. Posso andare a pensare, nata nell’Africa d’Italia, dice il poeta, che per Milano partano tutti questi treni in contemporanea? Il marito paga maledicendo, sono sicura. Il figlio spera solo di potersi stravaccare presto su un qualsiasi sedile e sonnecchiare fino a destinazione, io cerco di concentrarmi sull’abbraccio dei miei amici che ci aspettano e anche lì avrei avuto le mie belle delusioni. Ma questa è un’altra storia.
Foto 1 di Ligin Lee: https://www.pexels.com/it-it/foto/allenare-trasporto-pubblico-stazione-dei-treni-ferrovia-13862113/
Foto 2 di Carsten Ruthemann: https://www.pexels.com/it-it/foto/allenare-viaggiando-trasporto-pubblico-ferrovia-12882811/
Foto 3 di Aybike: https://www.pexels.com/it-it/foto/persona-donna-allenare-stazione-dei-treni-15020338/