Chi ci crediamo di essere?
Non si può sempre pensare ad altro. Non si può sempre ubriacarsi di rumore per evitare di stare nella quiete interiore. Una quiete così prorompente da dover essere elusa. Perché l’ascolto rivolto a sé è un’incapacità così diffusa? Chi ci crediamo di essere per usarci sì tanta sufficienza? Tanto disinteresse, tanta incuria? Quali mai potrebbero essere i pericoli di stare con sé, sentirsi, percepirsi, ascoltarsi, assecondarsi? Davvero organizzarsi in società ha fatto della società stessa, e del favore sociale, e dell’approvazione sociale, e del compiacimento sociale, e dello standard sociale, e del livellamento sociale, un posto non desiderabile dall’animo umano al punto da doverlo sedare, costringendolo in angusti sottoscala dove sono stipati passioni, personalità, esclusività, universalità, specialità, talenti? Il vulcano dorme, ribolle silenzioso e aspetta che la ragione torni ad avere la meglio sul senso di opportuno, opportunità e opportunismo pubblico.
Una quiete così prorompente da dover essere elusa
Aspetta che – fatti lunghi viaggi per tentare di essere chi non si è, fatti lunghi panegirici per raccontarsi storie accettabili dai più, trascorso tutto il Tempo necessario per capire ciò che è talmente ovvio da non risultare nemmeno evidente – finalmente si inizi a vivere il tempo residuo secondo il proprio essere, senza accomodare, senza aggiustare, senza tentare di piacere assumendo “pose” innaturali. Il tempo residuo… La vita è fatta di tempo, ed è misurato, contato, a tempo determinato, con la scadenza indicata, invisibile, su un lato. Ma lo stesso la conduzione dell’educazione sociale è quella di passare la maggior parte di questo prezioso tempo a fingere di essere ciò che non si è, a farsi piacere ciò che in realtà risulta essere insopportabile, per poi capire (e neanche tutti) quando è troppo tardi, che il tempo buttato è stato buttato, ed è senza riscatto, senza soluzione. “Chi ci crediamo di essere per usarci sì tanta sufficienza?” L’incoerenza regna sovrana. Se fossimo davvero nostri, non dovremmo darci la cura necessaria per fiorire, attingendo energie e benessere da tutto quello che ci viene offerto come il fiore fa con la terra e la pioggia? E se non fossimo nostri ma di un disegno incomprensibile, non dovremmo essere quel tratto dato a matita che grazie alle nostre azioni diventa, col tempo, indelebile? Chi ci crediamo di essere, che arroganza ci governa per arrivare a sfruttare i beni di questa terra senza essere doni noi stessi, senza assecondare il nostro flusso, la nostra unicità irripetibile e incontrastata, la nostra bellezza?
L’incoerenza regna sovrana
hi ci crediamo di essere per decidere di abdicare al giudizio altrui pur di non essere noi, pur di non disvelarci, pur di marcire? “Il vulcano dorme”, riempirlo dei detriti che si formano pian piano nel tentativo goffo di soffocare il sé non è la scelta più indolore, come potrebbe in apparenza sembrare; perché lui ribolle, ed un conto sarebbe esplodere con la lava dell’energia vitale che conquista il territorio, un conto sarà esplodere disintegrando il “dovere sociale”, il tappo di ipocrisie e menzogne che si sarà solidificato nella bocca del cratere per tentare di arginare la natura che per definizione è inarginabile. L’esplosione sarà feroce, inarrestabile, inevitabile. I detriti-proiettile saranno sparati lontano, l’urto sarà straordinario, così come la distruzione. Il magma comunque fuoriuscirà, ma questa volta sacrificando ogni cosa che si sarà adagiata comodamente su declivio sperando che il fuoco venisse spento da vite condotte con idranti in mano e manciate di sabbia negli occhi. Ma chi ci crediamo di essere per non essere davvero noi?!