Punto e Virgola – Trilli e la cena delle ali
Il racconto di oggi, per la rassegna “Punto e virgola, storie di disturbi alimentari”, è quello di Alice G., che si intitola “Trilli e la cena delle ali”. Con un tono leggero, a tratti fiabesco, Alice, usando la fiaba di Peter Pan come punto di partenza universalmente noto, fa riflettere aspetti che troppo spesso faticano ad emergere.
Trilli e la cena delle ali, di Alice G.
Il mio è un breve racconto che non vuole avere la pretesa di una perfetta ricerca di termini o descrizioni, ma vuole semplicemente unire l’infanzia di una bambina come le altre, quale è stata la mia, rappresentata dalla favola di Peter Pan, con ciò che invece l’adolescenza mi ha posto davanti: l’anoressia.
Vuole essere una raccolta di tante storie in una sola, che presenta diversi aspetti di ciò che circonda un disturbo alimentare, mettendo in secondo piano il cibo, per concentrare invece l’attenzione su ciò che consegue da un cattivo rapporto con esso e con gli altri. Perché l’anoressia non è un capriccio, ma la seconda causa di morte giovanile in Italia.
«Nel momento stesso in cui dubitate di poter volare,
cessate anche di essere in grado di farlo.»
Peter Pan
TRILLY E LA CENA DELLE ALI
Nel mezzo della terra, laggiù tra le selve e le pianure incontaminate c’era un piccolo villaggio di brave persone, lavoratori e semplici contadini che vivevano del buono che quel posto incantato poteva offrire: bacche e frutti, terra coltivabile e acqua potabile. Tutti in quel villaggio andavano d’accordo e si aiutavano l’un l’altro.
Trilly era una bambina orfana molto semplice. A mava leggere e dipingere, ma soprattutto aiutare il villaggio nel modo migliore che poteva. S i adattava a fare tutto, purché fosse un modo per sentirsi utile. Spostava gli oggetti, consegnava lettere, si infilava nei buchi più impensabili, aiutava bambini e anziani.
Aveva i capelli biondissimi che riflettevano i raggi del sole nelle giornate afose del villaggio . E ra bassa ed esile di corporatura, sembrava un uccellino. Le sue mani erano sciupate come quelle di un lavoratore, ma la sua pelle era candida come un fiocco di neve, liscia e fragile proprio come lei.
Ma Trilly non era una bambina come tutte le altre, lei aveva un dono che nessun’altro nel villaggio aveva mai avuto: le ali. Con esse la dolce Trilly poteva volare in alto nel cielo, lontano da tutti. Spesso, infatti, si rifugiava fin sopra le nuvole per poter riflettere e poi si precipitava affannosamente alla casa di Mastro Pino portando la soluzione al problema che al momento assillava il villaggio: un’epidemia, la mancanza di cibo, difficoltà di salute o di comunicazione, o anche un semplice problema sociale come una controversia. Inoltre, gli abitanti di quel villaggio coinvolgevano Trilly in tutti i lavori in cui le sue ali avrebbero potuto facilitare il trasporto di cose, persone o messaggi da un capo all’altro dell’intero villaggio.
Trilly si sentiva importante e accettata nonostante la sua diversità, la vedeva come un dono che le era stato fatto per potersi mettere al servizio di chi ne aveva bisogno.
Tutti nel villaggio amavano quella tenera bambina e le sue ali, e la invitavano a tutte le feste e cerimonie che venivano organizzate nel villaggio, a tal punto che un anno venne istituita la «festa delle ali», un intero giorno dedicato a Trilly, in cui tutti le facevano regali di ogni genere per ringraziarla della sua completa disponibilità. Un anno persino gli anziani del villaggio decisero di organizzare una cena in cui tutto il villaggio era invitato a partecipare per ringraziare Trilly del lavoro che faceva per tutti. Sarebbe stata una serata indimenticabile, con cibo di ogni genere, musica, intrattenimento per tutti i gusti, spettacoli e fuochi d’artificio: qualunque cosa per la piccola orfanella, divenuta ormai figlia di tutti.
Trilly ne era assai entusiasta, e passò un’intera settimana a lustrare e pettinare le sue ali, motivo di grande orgoglio per tutti, e a decidere cosa indossare quella sera alla «cena delle ali» in suo onore, in modo da essere assolutamente perfetta.
Finalmente arrivò il grande giorno e Trilly non stava più nella pelle, era entusiasta e voleva festeggiare con tutte le persone che le volevano bene, o almeno così credeva.
Avvenne, un episodio quella sera che cambiò completamente Trilly, le sue ali e il suo rapporto con la gente del villaggio: arrivò la fine del mito delle ali. Euforica, Trilly, era seduta al centro della lunghissima tavolata e davanti a lei si stagliava un’infinità di cibo, dal dolce al salato, dal pane alle torte, di ogni genere e grandezza. Tutti sedevano al tavolo apparecchiato nei minimi dettagli nella via principale del villaggio, illuminata per l’occasione.
La bambina annusò per un momento ad occhi chiusi l’aria che la circondava per godersi al massimo l’istante in modo da imprimerlo nella mente per sempre, apponendo un segnalibro a quella serata, scattando un’istantanea in quell’attimo. Era davvero felice. Quando riaprì gli occhi era tutto sparito, sulla tavolata era rimasta una briciola di pane e un bicchiere di acqua, il resto erano solo piatti e bottiglie vuoti.
«Dove è finita tutta la quantità di cibo che c’era fino ad un attimo fa?» domandò stranita la povera bambina.
«Che domanda sciocca, dolce Trilly. Dove credi sia finita? Al suo posto nella pancia di ognuno di noi».
Allora Trilly, sempre più meravigliata dell’accaduto, chiese con voce tremolante: «E per me non è rimasto nulla?».
Fu allora che si scatenarono le fragorose risate del villaggio, interrotte solo dalla voce di Mastro Pino: «C osa ti succede Trilly? A te non spetta mangiare, altrimenti le tue ali non reggeranno più il peso e non potranno più esserci utili». E subito gli abitanti ritornarono a bisbigliare tra loro guardando ogni tanto Trilly con sguardi di finta commiserazione e cattiveria. Trilly fu totalmente paralizzata, non riusciva a parlare e nemmeno ad alzarsi per andarsene come avrebbe voluto fare. Tutto intorno a lei diventò buio e i suoni si fecero ovattati. L e pareva di essere finita in un incubo. La serata sembrava continuare alla perfezione, tutti si divertivano come non mai, con spettacoli, circo, giocolieri. Tutti erano sereni e nessuno si era accorto che Trilly era ancora seduta a tavola incapace di muoversi, con la stessa espressione di chi è morto dentro.
Poi una voce si manifestò nella sua testa: «Svegliati cara Trilly, sei sempre stata utile solo per il tuo dono, al villaggio non importa nulla di te, importa solo di come possono sfruttare le tue ali per avere il massimo profitto con il minimo sforzo. Tu sei solo di impedimento. Succede così nel villaggio, sembrano tutti altruisti e gentili, ma in realtà pensano solo al loro tornaconto e tu sei stata davvero molto utile al villaggio per via del tuo dono, ma devi continuare ad esserlo, devi essere perfetta altrimenti non ti accetteranno, devi essere come loro impongono o non avrai modo di dare un senso alla tua esistenza.».
Trilly era tanto sconvolta dalla presenza della voce, quanto da quello che essa diceva e iniziò a riflettere e a vedere il mondo da un’altra prospettiva. Forse la voce aveva ragione, in fondo era sempre stata chiamata in causa solo per risolvere problemi che con le sue ali sarebbero stati più semplici; nessuno l’aveva mai cercata per un abbraccio o per ringraziarla, nemmeno la serata in suo onore era davvero per lei, ma solo per le sue ali che avrebbero anche potuto essere di qualcun altro senza alcuna differenza.
«Fai in modo che il nostro corpo non sia più un problema, dimostra al villaggio che senza esso le nostre ali non contano nulla! Tu sei la tua forza, le parole non dette, gli abbracci, le litigate, le tue idee ed opinioni. Non sei le tue ali, loro sono parte di te, ma non sono te. Logora il tuo corpo, portalo al limite, così si accorgeranno dell’errore ».
Continuò la voce nella testa, e Trilly si fece convincere. Si alzò e se ne tornò alla piccola capanna che gli abitanti le avevano costruito.
Da quella sera Trilly non parlò mai più, né con gli abitanti del villaggio, né con la voce nella sua testa, con la quale aveva conversato tutta la notte insonne successiva all’episodio .
Ma non era finita qui. Trilly decise, infatti, di non mangiare più. Se il suo corpo era un impedimento doveva essere cancellato. Voleva volare via da quel villaggio senza usare le ali che tanto odiava per la sofferenza che le avevano provocato , perciò l’unica soluzione era quella di diventare talmente sottile e trasparente da essere portata via dal vento. Non importava dove sarebbe finita, l’importante era andarsene dalle persone che non avevano avuto il minimo rispetto per la persona che era.
Tutti nel villaggio iniziarono a vedere che c’era qualche cosa di diverso in Trilly. on usciva più, non mangiava, ma nessuno si preoccupò di bussare alla sua porta per sapere che cosa non andasse in lei e se avesse avuto bisogno di aiuto.
Lei che era sempre stata al servizio degli altri nei momenti di bisogno, ora si ritrovava da sola, senza nessuno su cui contare, con il solo desiderio di consumarsi il più velocemente possibile.
Il tempo passava, giorno dopo giorno la piccola bambina si consumava nella sua capanna senza aprire bocca né per parlare né tantomeno per mangiare.
A l solo pensiero di ingerire qualcosa le veniva una morsa allo stomaco che le impediva di vedere ed era costretta a coricarsi a letto, dove passava il resto della giornata incapace di rialzarsi.
Avvenne però, in una notte in cui ormai Trilly era vicina al suo obiettivo , che mentre sonnecchiava a fatica, uno spiffero di aria fredda entrò e si infilò sotto le coperte, sollevandole un poco. La bambina allora si rivolse verso la finestra e si accorse che era completamente spalancata e, mentre fece per alzarsi per andare a chiuderla, una figura le si stagliò davanti agli occhi. Colta dallo spavento, la piccola Trilly cadde a terra, ma a causa delle sue deboli forze non fu più in grado di rialzarsi. Fu lo strano soggetto a prenderla sotto braccio e a stenderla a letto, coprendola con una coperta.
Un raggio di luna gli illuminò il volto e Trilly scorse il viso di un bambino che non si ricordava di avere mai visto nel villaggio. G randi occhi marroni, capelli castani coperti da uno strano cappello verde a punta con una curiosa piuma rossa che sporgeva a lato. Il suo sguardo era insolito, dolce e severo al tempo stesso. Trilly non sapeva più cosa pensare.
«Ciao cara Trilly, io sono Peter Pan, ma puoi chiamarmi Peter. Ah no, dimenticavo che tu non parli, beh io non ti voglio obbligare a parlare, ma risolviamo subito la situazione» e si accinse a cercare qualcosa in una piccola borsa di cuoio che portava in vita, fino a che non tirò fuori un piccolo campanellino attaccato ad un cordino e lo legò al collo di Trilly, che, stranita, non sapeva distinguere se fosse un sogno o la realtà.
Voleva reagire, alzarsi e cacciare via quella strana figura, ma non ci riusciva per via delle forze mancanti e anche perché in cuor suo sentiva che quel bambino non era cattivo e che era lì per aiutarla.
«Con questo potrai comunicare e solo io capirò quello che vorrai dire» le sussurrò in un orecchio i l giovane Peter. Trilly non sapeva perché, ma si fidava del piccolo Peter, così gli chiese con il suo nuovo campanellino: «Cosa vuoi da me, Peter? Le mie ali non le userò mai più per nessuno. ono la causa del mio dolore. perciò tutto ciò che mi chiederai sarà rifiutato…», ma Peter la interruppe subito: «No, cara Trilly, non sono qui per le tue ali, ma per salvarti. Verrai con me all’Isola che non c’è , mi aiuterai a salvare i bambini del mondo che, come te, sono vittima di una realtà crudele che non li rispecchia. Sull’ Isola che non ci sono regole perchè le facciamo noi, e i bambini non crescono mai, proprio come me e te, solo così si può evitare la cattiveria del mondo adulto, i pregiudizi e le dita puntate sui difetti altrui».
Trilly era davvero esaltata dalla proposta, ma qualcosa non la convinceva. E ra stata ferita nel profondo e non riusciva più a credere in niente.
«E dove sarebbe questo posto? Come ci si arriva e come facciamo a salvare i bambini?» iniziò a tintinnare disperatamente in cerca di risposte.
Peter prontamente rispose: «Guarda fuori, la vedi? Seconda stella a destra questo è il cammino e poi dritto, fino al mattino, poi la strada la trovi da te, porta all’isola che non c’è . Io so volare, ora devi solo credere nel potenziale positivo delle tue ali, sono loro a portarti alla salvezza, non l’anoressia. È ciò che ti rende unica a salvarti, non devi essere tu ad adattarti al volere egli i altri. Spicca il volo dolce Trilly, apri di nuovo le tue ali, mostrale al mondo con orgoglio perché sono il tuo punto di forza. Reagisci a questa ferita, ricucila e alzati con tutte le forze che ti restano e, una volta giunta a destinazione, ti farò preparare un pasto caldo per risanarti. Allora ci stai?».
Trilly sembrava finalmente davvero rinata, cominciava davvero a credere in Peter e in se stessa, ma ancora qualcosa non la convinceva: «Ma i bambini come li salviamo? Loro non sanno volare?» chiese , turbata.
«Il tuo campanellino produce polvere magica che permette a un bambino di volare tutte le volte che tu credi in te stessa, ogni volta che fai un gesto per prenderti cura del tuo corpo, delle tue ali e della tua anima. Ogni anno torneremo sulla terra nel giorno della «cena delle ali» che il villaggio ha trasformato in «capodanno» per festeggiare l’inizio di ogni nuovo anno, dimenticandosi completamente di te, e noi lo faremo salvando un bambino «diverso», non accettato, non a suo agio con se stesso ed escluso, per donargli una vita migliore insieme a chi, come lui, deve imparare ad accettarsi in un altro luogo che non sia il mondo degli adulti».
D etto ciò Peter si avviò verso la finestra e, ormai sul davanzale, si girò con una mano protesa verso Trilly, che esitò qualche istante, ma poi spalancò le ali per la prima volta dopo anni e con Peter si avviò verso la stella, verso l’isola che non c’è, verso una nuova vita.
Giunta sull’isola allo stremo delle forze, Trilly dovette imparare di nuovo a camminare con le sue gambe, in un mondo del tutto nuovo, che non era perfetto, ma senz’altro più sincero e umano. Pian piano cominciò a mangiare di nuovo e poco alla volta si rimise in forza con l’aiuto e il sostegno di Peter e di tutti i bimbi sperduti che già abitavano l’isola.
Fece nuove amicizie e trovò un nuovo lavoro, sarebbe stata una tuttofare per potersi pienamente esprimere in ogni campo.
Decise, però, di non recuperare la parola, ma di comunicare solo con il campanellino, perché era diventato il simbolo della sua rinascita e non voleva che le sue parole potessero ferire mai qualcuno con la forza e la potenza con cui avevano ferito lei.
Da allora ogni Capodanno Trilly e Peter Pan scendono sulla terra e, tra i cenoni e i festeggiamenti, compaiono in camera di bambini e bambine che si sentono esclusi e diversi e che per questo rifiutano il cibo e le relazioni. Questi bambini, una volta arrivati sull ’isola che non c’è imparano ad amarsi per i loro difetti , e tutti insieme costruiscono una società basata sul rispetto delle differenze e sull’aiuto sincero dell’altro, senza secondi fini o interessi di denaro e potere, perché solo coloro che sanno essere un po’ bambini possono riconoscere che le cose davvero importanti nella vita sono altre, prima tra queste l’amore verso se stessi e il prossimo, amore che non si dimostra a parole ma a fatti.