Punto e Virgola – Il filo rosso
Succede, a volte, che quando indici un concorso ti arrivino in redazione esperimenti narrativi azzardosi. “Il filo rosso” rientra sicuramente in questa categoria. Prosa e poesia, apparentemente in maniera scollegata, si susseguono. Eppure non avrebbero potuto essere spezzate, divise fra due articoli. Condividiamo oggi “Il filo rosso”, di Arianna G., così come avrebbe dovuto essere pubblicato. E a voi, cosa suscita?
La lingua è sommersa in uno sciabordio di parole, lettere confuse. Con le dita percepisco ancora qualche ciocca avvizzita. Quegli stessi ricci che odiavo pettinare. E gli occhi, dilatati ed enormi. Fanno paura.
Fa male sapere che non sarà più come prima. Mai più.
Osservo le ore scivolare via dolorosamente.
Ogni minuto è una fitta più acuta dell’altra. Non c’è tempo per i rimorsi, i rancori e per le nostre liti.
Vorrei parlarle, abbracciarla, infonderle i battiti, il calore della mia pelle.
Vorrei dirle: VIVI.
Vivi, perché lo meriti, perché sei una ragazza speciale.
Tu vali.
Non lasciarti morire. Quando non potrò farti forza, osservarti piangere, ridere, cadere, crescere. S arai capace di continuare anche senza di me?
Pensare è troppo faticoso; è come se il mio corpo gonfio annegasse in un’ovatta sempre più densa, costellata da lame e sangue.
***
Caffè rigorosamente amaro, la marlboro rossa appena sveglia di mattina presto, quando il cielo è una coperta gelata. La testa gira, lo stomaco marcisce e langue. Sono le sette
Le sue urla, riesco a sentirle perfino da qui. Non c’è scampo. Ogni rantolo è una fitta fra le costole. Avvolgo il polso con le dita, fra pollice e indice. Stringo. Dovrei essere lì con lei adesso. Ma non riesco a guardarla. Non riesco a non odiarla.
Oggi siamo sole; finalmente potrò fare ginnastica tranquilla e non chiusa in bagno e trattenendo il respiro, con l’asciugamano sotto i piedi per attutire i rumori.
Aspiro l’ultima boccata, con forza.
Le grida si fanno sempre più acute. Spengo la cicca e sospiro.
«Mamma, cosa c’è?»
Mi osserva come una bambina, lo sguardo innaturalmente sgranato, le gambe sprofondano sulla sedia a rotelle.
«Guardiamo un film, ti va?»
La porto nello studio, sul tappeto morbido e colorato.
I raggi bianchi del primo mattino si arrampicano sulle tende. Alzo il volume al massimo. E’ il momento. Mi stendo sul pavimento duro e freddo del corridoio, con un’occhiata sempre rivolta alla stanza, alla sua nuca spoglia e rugosa.
Oggi è la giornata glutei, gambe e addome.
Il suo gemito lacera i miei tonfi. E io spingo di più. Salto più in alto. Vado sempre più veloce, non posso aiutarla se prima non finisco. Le ossa fanno male, i lividi chiazzano la pelle di viola. Ancora quindici minuti. Ci vogliono almeno quaranta minuti per bruciare 360 kcal.
***
Schiaccio la fronte contro il vetro spesso, una goccia salata intorbidisce la vista del giardino. Lei è lì, tra l’erba. Sparge scie di zucchero sul prato come fossero coriandoli invece di metterlo nel suo tè.
Quel viso scavato, pallido; il corpo sempre più sottile volteggia con i refoli del vento. Si avvicina, si avvicinano i suoi occhi spenti, morti. Perché?
È l’ennesimo ricovero, quello più breve e inutile. La terranno qui solo due settimane, per nutrirla, per prepararla alla solitudine che dovrà affrontare.
Mio marito e la piccolina spingono la carrozzina fino alla sua camera: è un’accozzaglia di libri, vestiti sparsi, disegni. Quei volti di donna inquietanti e ammalianti. Inspiro l’odore familiare di disinfettante, respiro i colori scialbi delle pareti.
È mezzogiorno ; presto arriverà il pranzo, il frastuono del carrello macina la distanza einvade il reparto.
Le sue mani trasparenti afferrano coltello e forchetta. Giocherella con i rebbi, la bocca serrata.
«M-A-N-G-I-A»
Si volta, stupita. La mia voce è il riverbero di un mondo parallelo. C’è una scintilla passeggera nelle sue pupille. Una frazione di secondo. Porta un boccone alle labbra spegnendosi di nuovo.
***
Fiocchi candidi. Spalanco la finestra e i batuffoli bagnano il pigiama. Qui la neve è una rarità, per questo quando arriva tutti ritornano un po’ bambini.
Anche se non è più lo stesso. E’ come se fossi appesantita, fiacca. Vuota.
Non m’importa di nulla, ma cerco di fingermi eccitata; indosso strati spessi di maglioni e calze, fino a scomparire. Tremo.
Prima di accostare il portone il senso di colpa mi coglie di sorpresa. Forse dovrei rimanere a casa, a guardare con lei il panorama. Accarezzarla, soffiarle l’inverno sulla pelle. Riscaldarla con un sorriso.
Il tonfo rimbomba su per le scale. Guardo ancora per un attimo la porta sprangata.
***
Neve. Neve. Neve. Fitta. Fitta. Fitta. La testa esplode.
Qualcosa si è rotto. Non riesco ad articolare i sentimenti.
Fa male, male. Troppo male.
Non andate via. E’ tutto nero qui.
***
Un passo, un respiro frantumato. La nausea è prepotente, lo strato ghiacciato è alto. Troppo.
Mi muovo a fatica. Stanca.
Con il freddo si bruciano più calorie.
Oggi a pranzo c’è la pasta. Ma io ho già mangiato. Ho divorato cristalli di acqua solida fino a graffiare l’esofago. Fino a soffocare.
Il silenzio si incastra alle correnti d’aria. Non c’è nessuno in giro. Sono stanca.
Ho paura di non farcela a tornare a casa.
Mi accuccio accanto ad una radice che infrange il terreno. Piango. Avverto i formicolii impossessarsi dei miei muscoli, il respiro rallentare.
Non sapevo che sarebbero stati i giorni peggiori. Non credevo che da quel momento in poi avrei odiato la neve.
Se solo potessi…
tornerei là in quel momento di distrazione
t’avrei teso la mano,
t’avrei dato sostegno.
Se solo potessi…
tornerei indietro nel tempo,
avrei visto il tuo cuore
spezzato,
avrei capito com’eri
veramente…
Se solo potessi
chiudere gli occhi un
istante,
per ritrovarmi là
quando stavi sbocciando,
quando stavi per mettere le ali.
La bambina sognata
da sempre è svanita
lasciando il posto alla
ragazza di ora.
Ma oggi posso guardarti
negli occhi, vedendoti
nella tua realtà.
Ascolto parole brutali
che nascondono tante
amarezze…
Ma se solo potessi…
ricomincerei da lì dal
giorno sbagliato.
***
Folate stantie. Il nastro rosso ondeggiava, ammiccava ai raggi del primo sole. Rosso prorompente. La ragazza ne cullava le movenze flautate con lo sguardo. Le sarebbe piaciuto tanto poter ballare su quel filo vermiglio, sospesa a mezz’aria, tra il rovente dell’asfalto e la morbidezza di una nuvola.
La ragazza avrebbe tanto voluto essere funambola, tastare a piedi nudi l’equilibrio. Ma era troppo pesante, i passi goffi, le gambe tozze. Aveva un sogno; sfumare il suo corpo ingombrante in una leggerezza impercettibile; camminare su quel nastro e non tornare mai più.
«Chissà», si chiedeva, «Magari se sapessi volare sul filo… Forse è un ponte magico, forse il filo mi porterà nel posto dove la realtà diventa fumosa, e i sogni si possono assaggiare».
Si chiedeva, soppesando le varie possibilità con occhi nostalgici, se il nastro fosse un ponte per l’aldilà. Così la ragazza cominciò il suo estenuante allenamento.
Disegnò con un pezzo di gesso una striscia sottile su l’impiantito e tutti i giorni danzava cercando di non deviarne i contorni.
Smise di mangiare, annullò la sua sete, la sua fame; tutte quelle sensazioni così scomode. Odiava essere umana.
Giorno dopo giorno la sua pelle sfumava in un colorito diafano, di porcellana. Riusciva a percorrere i nodosi sentieri delle sue vene che tracciavano vie arzigogolate sulle sue braccia sottili.
Giorno dopo giorno, mese dopo mese, la ragazza carezzava in preda all’ebrezza quel suo corpo cangiante. Certe notti, crogiolandosi nel silenzio scuro e pastoso, ne sfiorava gli spigoli sempre più appuntiti. Provava una vertigine muta e invadente al solo tocco. E la gente osservava, puntava occhiate malevole su quel viso sempre più bianco, di bambola, privo ormai di espressione.
Non rideva più la ragazza, le labbra erano troppo stanche. E poi non poteva sprecare energie in gesti inutili. Sorrideva soltanto alla vista del filo. Ne rimirava la lucentezza bramando il momento in cui le sue dita ne avrebbero abbracciato le onde setose.
La ragazza, ormai, non riusciva a vedere più nient’altro, il rosso ingombrava ogni cosa. Iniziò a stremarsi di ginnastica, godeva dei digiuni. Si sentiva così elegante e affusolata; sulla schiena affiorarono delle piccole ali, graziosi moncherini appena accennati. E col passare del tempo crescevano e cancellavano la carne. Sentiva freddo, brividi algidi ne squassavano i passi. Ma lei imperterrita si spogliava allo specchio e intirizzita rimirava la sua opera. Ogni mattina saliva in punta di piedi sulla piccola bilancia del bagno. Era un visibilio segreto la discesa repentina di quelle cifre, anche se le parevano sempre così immense. Non si sarebbe fermata fino a quando i numeri non fossero svaniti del tutto, fino allo zero.
Una lanugine vellutata la riparava dalle intemperie, batuffoli scuri la rivestivano tutta, cercando di segnare il suo corpo sempre più vitreo.
Erano le sette di una mattina di autunno quando l’ago spietato della bilancia rimase immobile. Spossata, emise un tenue sospiro di sollievo. Era pronta finalmente per la grande traversata. Un lieve sudore gelato ne faceva brillare il viso. Si spogliò, sfidando gli spifferi freddi. Il mondo era immobile, tutto pareva osservare quello spettacolo sfiancante, senza possibilità di ritorno. Tastò con goduria la morbidezza del filo, e un passo dietro l’altro cominciò la sua danza. Era libera; volava, saltava agile, non sentiva, non vedeva più nulla. Non era neanche felice; aveva sperimentato in sogno quel momento così tante volte; tutto era così familiare.
Ad un certo punto una corrente improvvisa fece oscillare il suo ballo. Un vortice di foglie morte la stringeva in una morsa accecante, voleva farla cadere giù.
E la ragazza annaspava in preda al terrore; fiotti salati solcavano il suo viso pallido. Aveva paura. Non riconosceva più i batticuori delle emozioni, ma quel giorno, dopo tanto tempo, provò un terrore avvolgente. Tutto si faceva sempre più confuso, non riusciva a scorgere neanche il rosso ammiccante del nastro. I suoi occhi affondarono in un buio viscoso, senza perdono.
Si ritrovò afflosciata in una pesantezza nebbiosa. La testa le girava con prepotenza, tremava. Si rannicchiò cercando un po’ di calore fra quelle braccia piatte e ghiacciate.
Silenzio. U n’assenza di suono scolpiva quel nulla caliginoso. N ascose il suo viso fra le ginocchia ossute. Si sentì sola per la prima volta, accerchiata da un abbandono che sapeva di amaro, di lacrime.
Ma non pianse, non sapeva più farlo. Le sue pupille avevano dimenticato quel punzecchio caldo.
Un ticchettio, un rumore accennato di passi infranse l’immobilità candida. Le nubi asfissianti si condensarono in una figura slanciata e trasparente. Goccioline d’acqua disegnavano i contorni di un viso familiare, di una fisionomia perduta che la ragazza aveva amato così tanto. Era la leggiadria incantevole di sua madre; le sue guance si tinsero di gioia.
«Mamma» bisbigliò con voce arrugginita e roca, in quei mesi ne aveva scordato persino il suono. Un profumo di gelsomino sfiorò con affetto quel corpo stremato. Era il suo odore pregno di nostalgia. Madre e figlia si unirono in un abbraccio mozzafiato. Si baciarono, si tastarono a vicenda senza proferir parola. Non era necessario. Le mani sproloquiavano, si raccontavano un dolore antico. Lo sguardo insistente del fantasma schiaffeggiò la sua preoccupazione su quelle membra esauste. La ragazza avvertì una vampata scottante che formicolò su ogni cellula. Erano vergogna, sensi di colpa. Ma le dita morbide della madre bloccarono i suoi pensieri. Aveva ancora tempo.
Non tutto è perduto. Doveva solo dimenticare quel suo delirio di funambola. Doveva tagliare il filo. La ragazza pianse con violenza, in silenzio. Non voleva distruggere quell’unico ponte, l’ultima possibilità che possedeva con cupidigia. Non poteva seppellire il suo barlume d’amore, cancellare il ricordo delle coccole materne.
Non è ancora il momento. Io sarò vicina a te, dentro di te. Nella vita, nei tuoi battiti che canteranno ancora per tanti anni, nelle emozioni di ogni attimo. Assaggia ogni giorno, regalami il sapore della tua esistenza. Prova, vivi per me. Questo è l’unico modo di restarti accanto.
E tra carezze, occhi negli occhi, la ragazza si addormentò con un lieve sorriso sulle labbra.
Si risvegliò in un olezzo pungente di terriccio umido e pioggia. Era caduta in un tappeto di foglie variopinte.
Da sdraiata riusciva a distinguere le sfumature del cielo bigio, soffocato dalle nuvole.
E rise, all’improvviso la sua gola implose in gorgoglii chiassosi; da troppo tempo erano sepolti in una coltre di oblio. Si alzò di scatto e cominciò a saltare, a correre, a respirare. Singhiozzava per il tempo sprecato.
Si lasciava avvolgere dal vento, dalla pioggia, nuda e viva come mai prima di allora.
Da quel giorno la ragazza ricordò il sapore delle cose, l’odore penetrante e meraviglioso dei giorni. Ricominciò a mangiare, a bere, a sperimentare emozioni. La pelle di cera si rivestì di uno strato morbido e caldo di carne.
Da quel giorno il suo viso di porcellana ritrovò il sorriso , e il suo petto riscoprì i tonfi pieni e ritmati di un cuore che batte.
***
Tutto si confonde in un vortice di voci fastidiose.
Ho provato a fartele ascoltare, mamma, le nostre canzoni preferite. Ho provato a tenerti per mano, stringerti con i lacci dei ricordi. Ma volevo solo che andassi via, che non mi ferissi più con i tuoi occhi grandi, invasi dal dolore. Volevo solo che smettessi di piangere e gridare.
Hanno portato la colazione stamattina. Sono tutti nel salotto. Hanno smontato l’albero di Natale perché «non era il caso».
Stringo il thermos del caffè con forza, ma non sono più qui. Una tazzina, un’altra bella colma.
Non c’è più caffè. Non mi va di mangiare nulla.
Il primo formicolio ha stregato la mia nuca, poi tanti pizzicorii lungo il corpo. Chiazze nere sempre più dense proprio qui di fronte. La nausea m’invade con prepotenza. Galleggio.
Ricordo solo il sapore acido lungo la gola, metallico. I miei conati silenziosi.
Ricordo la pioggia sottile lungo il viso, la strada che si espande e si richiude ad intermittenza. Le mie gambe sempre più pesanti.
Ricordo il tonfo del martello rimbombare nel mio petto, i chiodi che sigillano il coperchio della bara. Un rumore definitivo.
Le lacrime erano scontate, ma non mi appartenevano. Io non c’ero.
Ricordo le mani di mia sorella, calde e morbide tra le mie. Ma non riesco a vedere la sua espressione, il suo sguardo annacquato.
Ricordo la litania del parroco, l’incenso che stordiva i pensieri, le voci sommesse in preghiera.
Le candeline sbiadite, fiamme che si espandevano fino ad annullarmi.
Ricordo i miei piedi violacei sulla bilancia, l’ago immobile sui 30 chili.
Ricordo la paura.
La vertigine.
***
CONFEZIONE FAMIGLIA
Lieve,
un tintinnio sbarazzino,
ho preso una tazza da tè
nel lucore del mattino;
gorgoglio di latte freddo,
ho tuffato lentamente il tuo regalo,
biscotti al sapore di infanzia
di risate bimbe
di colazioni chiassose,
sguardi incagliati a sguardi.
Ho sospeso il tonfo a mezz’aria,
l’ho guardato meglio
quel pacco enorme
confezione famiglia,
la desolazione delle sedie intonse
il tavolo vuoto,
l’ho rimuginato a lungo.
Già li vedo inflaccidirsi
quei dolci biscotti
di uova e di burro,
abbandonati in un angolo
lì, nella credenza infestata di addii.
È troppo grande
questo sacco di dolciumi
per una sola.
***
PRANZO. Primo: legumi. Sono già un piatto unico, ma dato che siamo adolescenti e dobbiamo nutrirci la zia ha cucinato solo per me e mia sorella il filetto di cernia. Superfluo. Ero già così piena, ma dovevo finire tutto.
Dove si trova il confine labile tra normalità ed esagerazione, quando si sfiora questa barriera? Non lo so, mi sembra tutto troppo e vorrei capire se sia davvero la realtà oppure una sua distorsione. Vorrei poter dire che non cadrò mai più. Non sbaglierò. Non mi lascerò avvincere.
Vorrei poter dire: SONO NORMALE! Guarita.
Ma non è ancora così, inutile prendermi in giro.
Non guardo più ogni singolo alimento con i relativi valori nutrizionali, non sono più iperattiva, non penso più costantemente al cibo. Ma ci sono ancora le voci, gli attacchi di panico quando provo a fare sport, sforzando il mio corpo. Ho ancora tanta paura. Vorrei che mi venisse detto che un giorno tutto questo non sarà che un ricordo. Ma nessuno può prevedere il destino o scrivere questa storia al mio posto.
Forse certe ombre non verranno mai rischiarate dalla luce.
Forse alcune cicatrici rimarranno esposte, profonde e bianche.
Non sono perfetta. Non sono invincibile.
La mia fragilità è evidente, ma lo è anche la mia forza perché sono viva, respiro, parlo, rido, mi osservo, osservo, ballo, piango, m’incazzo, inciampo.
Ci sono ancora nonostante tutto.
***
LA SUA ASSENZA CHIASSOSA (A mio padre)
Non biasimarmi stamattina, se
ho scordato la colazione,
non c’era il profumo di te –caffè
ad augurarmi il buongiorno;
non offenderti oggi, se
ho lasciato i piatti sporchi nel lavabo –di proposito
se invece di pulire il tavolo
ho cosparso ogni cosa di briciole –ricordi vivi.
Anche se
non l’hai visto di sicuro
questo disordine
non puoi nascondermi nulla tu,
me ne sono accorta
non le strascichi più le pantofole
fino in cucina –è dura per tutti
la nuova routine.
Hai notato quelle lacrime all’ingresso?
Le ho piante con premura
perché tu, possa riconoscerlo
il colore
lucido, amaro
di questo nostro dolore.
***
Cose piccole ma felici:
1. Sono rimasta a letto solo perché mi andava ammutolendo i sensi di colpa;
2. Ho mangiato una mela alle 19.30 anche se era già tardi per fare merenda;
3. Sono uscita per una passeggiata osservando i colori della città ingentilirsi al tramonto, gli odori caricarsi di primavera, il cicaleccio delle strade che si risvegliano nel week-end;
4. Mi sono preparata una cenetta speciale anche se non sentivo di meritarmela, senza mangiare troppo o troppo poco;
5. Ho ascoltato un vecchio CD che mi ricorda i miei scapestrati 16 anni;
6. Ho fumato una sigaretta in cucina anche se non potrei e ho gustato la cena con molta calma, sciogliendo i sapori sulla lingua senza ingurgitare tutto;
7. Ho visto un film triste ma molto bello nonostante dovessi leggere il libro per l’esame di letteratura, ma non importa. Per oggi sono contenta così.
***
SOGNO BLU
La tua voce
una seta blu
quel tocco di velluto
che sfiora, stringe, strizza
i miei battiti.
Hai di nuovo i tuoi ricci tenaci
gli occhi grandi e luminosi
mi culli tra le braccia
asciughi i miei singhiozzi soffocati
Mamma
sono in un’atmosfera di cotone
nuvole azzurre, venature indaco.
Le vetrine dei negozi che ammiccano
ridiamo
respiro i tuoi abbracci
quell’ odore indimenticabile
del maglione che sfrigola sulla tua pelle.
Siamo di nuovo insieme
in una caffetteria appartata
a fare una golosa merenda
a guardare un film sul divano
i piedi nudi
scarmigliate.
Sei venuta a trovarmi.
Ti è bastato l’urlo dei miei pensieri
le invocazioni nel turbine della notte
Mamma.
Una foglia che sfrega l’asfalto
un’implosione di aria frizzante
gli alberi lacrimano colori.
E’ il refolo del mattino
tra le ciglia.
Non voglio
non voglio lasciarlo entrare
aprire gli occhi.
Sei venuta a trovarmi
in un alone dolce
tinto di blu.
Mamma.
Lo smacco delle palpebre
prepotente
le coperte sparpagliate
le mie gambe scoperte.
E’ mattina.