Staccare
Mi sono ricordato di lui, un’altra volta. Bisognava staccare le foto per l’ultimo trasloco che avrei fatto in quella città. E c’era lui. Una foto in un parco. Lui suonava la chitarra e io cantavo. Quanta vita era passata da quel giorno, quanti capelli si erano imbiancati, quanta strada. Che poi se ci pensate il quanto è uno dei concetti più relativi che esistano, tanto che forse è per questo che è affascinante. Quanto rispetto a cosa? E quanto in che intensità? Concetto di peso o di tempo. Quanto manca, quanto pesa. A volte più pesa e più manca; certe volte se pesa troppo vuol dire che bisogna sganciare l’oggetto. I ricordi però, i ricordi… quelli restano. Sissignori.
Quella sera ho avuto paura di una cosa sola: dimenticare la sua voce. Un chiodo fisso che martellava i miei occhi mentre correvo in macchina. Pioveva, quella sera. E il martellamento durò anche quando scesi dall’auto, arrivato nel parcheggio dell’ospedale. Diluviava tanto che non te ne accorgi perché piano piano diventi un tutt’uno con l’acqua. Maledetta acqua.
Che poi io c’avevo parlato al telefono due ore prima. Una cosa che mi lacerò dentro: poteva essere stata colpa mia, poteva essere stata la mia, la chiamata fatale. Qualche mese dopo mi dissero che no, l’ultima telefonata l’aveva fatta lui alla sua ragazza. Le aveva detto: “Tesoro, tra tre orette sono da te” e chissà quali altre smancerie. Era un tipo molto romantico, Federico. Quasi mi vergognavo per lui a sentire i suoi discorsi con le ragazze.
“Federico ha fatto un incidente. E’ grave. Ti aspetto in ospedale”. E iniziai a correre, martellamento appresso. Questo mi ricordai quando stavo cercando di non rovinare quella foto a staccarla. Contro un camion, contro il guardrail. Più. Basta canzoni, basta De André, basta sognare. Basta incazzarsi, basta bestemmie, basta rutti e basta birre. Basta. Basta tutto. Ma la voce… la voce? Perché sono stato anche un po’ stronzo. Ho cancellato tutti i files audio, tutti i video. Per quella storia che se pesa troppo una cosa bisogna mollarla. Una cazzata, sappiatelo. Le cose vanno affrontate. Per fortuna non siamo come i computer che basta schiacciare un tasto e alè, saluti e baci.
Tornai indietro subito, arrivato all’entrata del reparto. C’erano tutti che piangevano e sentivo delle urla “Fed è morto, Fed non c’è più”. Non mi piacciono le lacrime, soprattutto quando è sera e non c’ho gli occhiali neri. Soprattutto quando mi martellano gli occhi. Tornai indietro senza farmi vedere. Mi stavo facendo ripetitivo. La sua voce. La sua voce no.
E devo esserci riuscito, nell’esperimento, perché la sua voce non la dimentico. E’ parte di me, come il mio respiro.
“Enrico!” gridarono dalla stanza giù, distogliendomi da tutti i pensieri “Noi facciamo l’ultimo giro con il furgone; tu resta qui e poi veniamo a prenderti”
“Quanto ci mettete?” urlai io “Non ci stanno anche le mie due ultime cose?!”
“Siamo pieni come un uovo!” gridò Giovanni “C’è l’ultima birra in frigo, pigliatela!”
“Ok!” sussurrai, mentre sbattevano la porta. Sarei stato in quella casa un’altra oretta. Mi ordinai di rimanere seduto perché tutte le cose lì dentro mi avrebbero fatto viaggiare nel tempo. Ma, mentre cercai di sedermi sul materasso nudo, la mia attenzione venne attirata da un foglio sotto l’armadio.
Lo andai a prendere, intriso di polvere come nemmeno nel 1600.
(continua…)
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