Сарајево (Sarajevo) mon amour, il mio viaggio nei Balcani
di Michela de Biasio
“Ste, dove andiamo?”
“No Michela, io quest’anno niente ferie, al massimo week-end, non ho soldi veramente”
Forse perché sono la sua Principessa bionda, forse perché è il mio miglior amico, forse perché ci lega qualcosa di grande, lo convinco, si parte: Balkani.
Questo viaggio in realtà è un secondo step. Il primo era stato nel 2011, quando mi sono laureata alla triennale, ma quella volta eravamo andati più vicino: Zagabria e poi la costa istriana, il mio mare, quello di quando ero piccola e che mi ha vista poi, più grande, in giro per campeggi con amici e morosi vari.
Questa volta decidiamo che non ci saranno mete fisse, niente navigatore, niente date: solo una meravigliosa cartina e quella che diventerà la nostra amica più preziosa, la Lonley Plant Balcani Occidentali. Se pensate di poterne trovare un’altra vi sbagliate: è l’unica guida tradotta in ogni lingua. Dovunque andrete, a Novisad, a Mostar, in Albania… sarà sempre lei, uguale; ogni turista, di qualsiasi nazionalità, sottobraccio avrà la Lonley.
Carichiamo Martina, la Focus, e partiamo. 9 agosto 2013, Pordenone è calda e umida, prima tappa Novisad.
Lungo la strada i paesaggi cambiano, meravigliosi. Prima il nostro amato Carso Friulano. Poi inizia la Slovenia. Arrivano le rosse terre della Croazia e dopo ore e ore (minimamente preventivate) arriviamo al confine con la Serbia. L’emozione è indescrivibile, tendiamo i passaporti, nuovi di zecca, e sentiamo il suono dei timbri. Ma presi dall’euforia sbagliamo strada e, senza capire come, rientriamo in Croazia e giunti di nuovo ad un altro confine il casellante prende a ridere come un pazzo: “Ah! Italiani! Buona navigazia!”. E giù a ridere tutti, come accade raramente.
Arriviamo a Novisad, e dopo il primo incontro con i piccoli paesini dalle case colorate, con le Yugo nei cortili e i covoni di fieno, l’impatto è fortissimo. Novisad scoppia di vita, è da poco finito l’Exit festival e ci sono molti turisti. I bambini fanno da parcheggiatori: quando accostiamo l’auto ci sono subito intorno e mettono le mani sul cofano; fa quasi paura.
Dove dormiamo? Hostel Rookies, saluti, sorrisi, Rakija come “welcome drink” e una camera bellissima con vista tetti e luci. Ma abbiamo troppa voglia di muoverci e, nonostante il clima di festa così caldo e accogliente, la mattina dopo ripartiamo per addentrarci nel cuore della Serbia, verso Guča.
Il più grande raduno di musicisti Rom dei Balkani. Ci arriviamo dopo una sosta a Čačak, dove Stefano per pranzo, sotto il mio sguardo perplesso e preoccupato, mangia una pizza dal condimento quantomeno improprio da un italico punto di vista. “Carboidrati, vecchia!” è la risposta.
Arrivati al festival veniamo accompagnati al campeggio da una delle organizzatrici, una ragazza svedese cotta dal sole e dalla fatica ma dolcissima e sorridente. Qui inizia la mia prima grande prova: un campo, fango, cavallette, tre donne in totale, e per il resto uomini massicci e prevalentemente ubriachi. Una baracca di legno e pietre come bagno, le docce usate come fossero un water.
Mi viene male e da lì iniziano le ventiquattrore più deliranti della mia vita. Musica, ottoni, rumore, Rom, bambini Rom (tanti), bagni a pagamento, ancora ottoni, Rakjia, balli, persone, profumi, birra, rumore, tamburelli, amici, risate.
Il Guča è follia, è piacere, è assenza di regole… è birra, dio quanta birra.
Il Guča è follia, è piacere, è assenza di regole… è birra, dio quanta birra.
Resisto appunto 24 ore, poi crollo. Chiedo a Stefano di andare via, per me è troppo.
Inizia un viaggio in macchina strano, con un po’ di malumore ma con la voglia di non litigare e di stare bene; perciò senza ucciderci sopportiamo insieme sette infinite ore di macchina, su e giù per un numero imprecisato di montagne, fino all’agognato confine con la Bosnia.
Il confine è una sbarra nel nulla, e quando dico nulla intendo che non c’è nemmeno la polizia di frontiera. Ad un certo punto scendo dall’auto e vado a vedere se c’è qualcuno. Una guardia avanza stancamente, ci prende i passaporti e li porta dentro una casetta di pietra. Altri due tonfi, altri due timbri. Un sorriso attraversa i nostri volti. Varchiamo un po’ più sereni il confine d’un paese che diventerà uno luoghi del mio cuore: Bosnia mon amour.
Al crepuscolo giungiamo a Sarajevo. Magica Sarajevo, che in cirillico si scrive Сарајево, come abbiamo dovuto giocoforza imparare cercando di interpretare dei cartelli stradali che l’alfabeto latino non l’han mai visto. Iniziamo a cercare l’albergo, consigliati dalla nostra cara Lonley, e approdiamo in un piccolo hotel dove ci danno camera, parcheggio e sorrisi a un prezzo che in Italia basterebbe a malapena per un ostello.
Non penso che al mondo possano esistere tante città con la dolcezza e il calore di Sarajevo, dove la gente ha negli occhi il ricordo dell’orrore e delle sofferenze della guerra, e nel cuore tanta voglia di vivere.
Sarajevo offre tutto a prezzi irrisori, ed è inspiegabilmente piena di italiani. Siamo arrivati al terzo cambio di valuta, e scopriamo che in Bosnia c’è il Marco convertibile. Altra inezia che non avevamo ovviamente considerato: la prossima volta prima di partire per un viaggio in quattro stati diversi (di cui per fortuna solo tre con una moneta diversa), ricordarsi di controllare il nome della valuta locale e a quanto sta il cambio non sarà un’idea così malvagia.
A Sarajevo puoi vedere e fare qualsiasi cosa, dalla visita alla Moschea di Gazi Husrev-Beg ai club dove ballare fino all’alba.
E ci siamo immersi in tutto ciò senza pensare, bevendo caffè turco e fumando il Narghilè.
E abbiamo visto il famoso ponte dell’attentato a Francesco Ferdinando, che dopo averne studiato alle elementari, medie, superiori e Università si staglia innanzi ai nostri occhi.
Quando cammini per le strade di Sarajevo puoi fermare chiunque per chiedere informazioni; puoi mangiare cose spettacolari nei posti più impensabili; puoi provare un’enorme fitta allo stomaco davanti alle case con ancora ben visibili le tragiche cicatrici della guerra, o toccandone le Rose, schegge di granata rimaste conficcate nei muri e nelle strade, e dopo colorate, quand’è tutto finito, per non dimenticare mai.
Magica Sarajevo con le tue Moschee, le Chiese, le Sinagoghe e la Baščaršija, il quartiere turco che da bambina mi affascinava nelle parole di una canzone di Enrico Ruggeri.
Profumata Sarajevo, con le tue pasticcerie traboccanti di Baklava e dolci pieni di miele.
Fragile Sarajevo, con la tua voglia di non dimenticare e il Museo del Tunnel che non ho avuto il coraggio di vedere.
Povera Sarajevo con le tue ferite ancora aperte.
Cinofila Sarajevo, che al posto dei consueti dolci italici gatti randagi cui la matta di turno porta i croccantini, hai delle considerevoli mute di cani ad accogliere il visitatore, perplesso e interdetto.
Vivace Sarajevo, con i tuoi tram che corrono sferragliando per tutta la città e i tuoi club e bar pieni di ragazze bellissime e audaci nei loro abiti così leggeri, mentre io battevo i denti per il freddo della sera.
Se il viaggio è emozione allora Sarajevo è viaggio.
Troppo pochi tre giorni; altre mete ci han spinti a partire, ma tornerò a prendere ciò che di me è rimasto lì.
(…)